dimanche 28 octobre 2007

La Conversation de Milan, 2è partie : La conversation

SECONDA PARTE


LA CONVERSAZIONE


Introduzione di Jacques-Alain Miller

Comincerò con un comunicato del 19 ottobre diffuso da SLP-Corriere in cui dicevo:

“Informo la comunità italiana del Campo freudiano che sarò a Milano la domenica 28 ottobre prossimo. Presiederò, la mattina e il pomeriggio, una Conversazione in cui le contraddizioni che ingombrano l’avanzata del Campo freudiano in Italia saranno esplicitate e trattate in senso dialettico. L’ingresso sarà libero per tutte le persone interessate. I fondatori del nuovo Istituto di psicoanalisi applicata recentemente riconosciuto (legge Ossicini) vi esprimeranno senza censura di nessun tipo le loro ragioni e le loro intenzioni, come pure le loro critiche relative alla SLP e all’Istituto freudiano. Invito i responsabili di queste due istituzioni a esprimersi persino in tutta libertà. Il pomeriggio sarà consacrato al dibattito generale, che non durerà meno di tre ore.”

Ho ricevuto ventuno interventi, li ho raggruppati in quattro sequenze che seguono l’ordine alfabetico con una sola modifica alla prima sequenza.

Virginio Baio, Piero Enrico Bossola, Gelindo Castellarin, questo è l’ordine alfabetico puro. Sono tre interventi che vanno un po’ nello stesso senso e, in particolare, l’intervento di Gelindo Castellarin è quello più lungo di tutti. Dunque, per dare più equilibrio, mi è sembrato interessante mettere qui l’intervento di Adriana Monselesan, che è il più corto di tutti gli interventi. Vale a dire che Gelindo Castellarin ha bisogno di circa dieci volte più di tempo di Adriana Monselesan per dire quello che ha da dire e, quindi, questo fa media.

E, dato che un tema molto importante per gli interventi precedenti, addirittura il perno di questi interventi, è Massimo Recalcati, ho pensato che non fosse necessario seguire l’ordine alfabetico per ascoltarlo, quindi lo ho fatto risalire dopo Adriana Monselesan. E, siccome nel suo intervento Massimo Recalcati sottolinea il contributo di Carmelo Licitra a Scambi, ho fatto risalire anche Carmelo Licitra. Quindi, questa è la prima sequenza di sei persone, e in seguito abbiamo l’ordine alfabetico puro.

Vi dirò solo una parola sul modo in cui io parteciperò e ascolterò questa Conversazione. Per me, quello che mi interessa non è il regolamento di conti, come si dice nei film western, tipo Sfida all'O.K. Corral. La vera natura della Conversazione per me è quella di essere un laboratorio. Un laboratorio del Campo Freudiano in Italia e al di là dell’Italia.

La questione iniziale, viene, certo, dall’iniziativa del gruppo dei sei, ma, a partire da lì si tratta di qualcos’altro. Si tratta di quello che nel suo intervento, che ho letto, Carmelo Licitra Rosa formula in questi termini: si tratta per il Campo Freudiano “di assumere una nuova identificazione”. Ebbene, per me, questa Conversazione è il laboratorio della ricerca di una nuova identificazione nel Campo Freudiano.

Chiamo alla tribuna Virginio Baio, Piero Enrico Bossola, Gelindo Castellarin, Adriana Monselesan, Massimo Recalcati, Carmelo Licitra Rosa.



PRIMA SEQUENZA


Virginio Baio

1.
La Conversazione del 28 a Milano ha questo di particolare, diverso dalle precedenti: che la “drammatizzazione” non è tanto di sciogliere la tendenza all’installarsi nella nostra Scuola di una fazione, cosa incompatibile con la Scuola della passe, ma la drammatizzazione è nella scommessa che questa Conversazione, che avviene in presenza di un duplice “resto”, cioè della nascita di un nuovo soggetto istituzionale, l’IRPA, e l’esclusione della SLP-IF, ci permetta di fare un passo a lato per fare un passo avanti.

2.
Un passo avanti dicendo di sì. Dicendo di sì a voler la Scuola di Lacan e Miller, a volerla a tutti i costi, e a batterci perché esista. A batterci perché sia la Scuola della “Nota italiana” e della passe.

3.
Fare un passo avanti può essere spesso l’effetto di fare un passo a lato, o un passo indietro. Si può avanzare anche rinculando.
Facendo però un posto alla dimensione soggettiva di chiunque senza tuttavia interrogarla, senza criticarla.
Scommettendo che la causa analitica ci riunisca per poter parlare, render conto, confrontarci, criticarci, assumendoci ognuno le proprie responsabilità, decidendo, rischiando di sbagliarci, senza far mancare la propria presenza e senza lasciar vuota la propria sedia. Senza nasconderci dietro gli altri.
Arrivare fino a rischiare di sbagliarci. L’“errore”, dice Miller, “è la matrice stessa del progresso”.

4.
Un passo avanti verso l’agalma della Scuola (del quale l’Istituto ne ha sempre fatto e continua a farne il suo orizzonte) per fare dell’impasse, della culpa, una felix culpa.
Un passo indietro? Certamente, accettando ognuno di noi la critica, la critica a volte dura, che fa male, critica anche se a volte cattiva.

5.
Un passo indietro per mettere al lavoro, non senza gli altri, gli errori, i passi falsi per trasformali in occasioni di avanzare

6.
La lezione che ne traggo è l’importanza della serie, di mantenere aperti luoghi e tempi “seri” di inter-locuzione, come lo sta facendo Miller, con i quali rispondere all’invito di Lacan alla sobrietà e alla vigilanza, perché il demone è sì l’Altro, ma il nostro altro.

7.
L’orientamento dell’Istituto di promuovere la “rivoluzione” per i docenti italiani ed esteri, e per gli allievi che possono iscriversi all’Antenna di loro scelta, non è già una politica del transfert?

8.
La scelta e la preoccupazione della Scuola di pubblicare in modo serrato e serio i Seminari di Lacan curati da Miller, non è una nuova “rivoluzione”?

9.
Infine, la “Nota italiana” ha già trovato dei lettori, dopo il silenzio del tripode.
CLR e MM se ne sono fatti destinatari “seguendo Lacan in questa faccenda” della passe. La loro determinazione ci sostiene a volere batterci perché la Scuola abbia nella passe la sua pietra d’angolo.


Pietro Enrico Bossola

Attraverso SLP-Corriere ci siamo detti già molte cose, per cui penso di soffermarmi solo su di un aspetto che trovo essere alla base della situazione in cui ci veniamo a trovare.

Massimo Recalcati pensa che ci siano diverse vie per portare avanti la causa psicoanalitica; una soluzione o una via da lui trovata è l’IRPA. Credo però che ciò su cui bisogna fare attenzione è su cosa si intende per portare avanti la Causa della psicoanalisi.

Questa questione è molto complessa, perché prevede dispositivi, forme associative, Istituti e altro. La genialità di Lacan passa anche per il fatto che ha fondato una scuola e non un Istituto come l’IPA, che vive della necessità di tutelare i suoi iscritti oltre che fornirne la formazione.

La sua preoccupazione era tenere vivo un sapere sul “c’è dell’analista”. Si trattava di tenere aperta un’elaborazione sull’enigma dell’analista, a partire però dal fatto che ci fosse una comunità di praticanti, in analisi, che si assume una responsabilità intorno a questo.

L’Uno dell’AMP funziona come momento di “universalizzazione” di ciò che anche le scuole nazionali producono, oltre ad essere un’istanza di indirizzo e rilancio. Sono, però, le Scuole locali con le loro comunità a garantire quanto detto.

Per cui mi domando cosa intende Recalcati per causa analitica rilanciata dall’IRPA, perché credo vada evitata una confusione. Un conto è creare le condizioni anche istituzionali affinché la psicoanalisi possa avere “audience” e suscitare interesse, un’altra è mantenere aperta la porta attraverso la quale passa la vera posta analitica, perché questa può richiudersi in qualsiasi contesto. Per cui mi ritrovo d’accordo con Laurent quando ricorda quale sia il posto dell’inconscio, del desiderio dell’analista, così come passano per la passe.

Trovo quindi importante distinguere il lavoro che si può fare attraverso una circolazione del sapere, anche interrogante attraverso la trasmissione più o meno universitaria e la costruzione di un sapere sulla posizione analitica, anche se tra loro ci sono delle relazioni.

Nel mio intervento su SLP-Corriere indico una mia preoccupazione: credo che vada pensato ulteriormente quale sia la funzione anche dell’Istituto Freudiano, perché se è vero che può essere una porta d’entrata per un incontro con la psicoanalisi, può anche diventare un campo in cui l’insegnamento universitario può diventare un modo per otturare il sorgere di un’interrogazione soggettiva sulla posizione analitica di questo o quell’allievo.

Ciò che fa limite a questo dipende dai docenti che tengono aperto lo scarto tra sapere e ciò che il sapere non riesce a dire in campo analitico e soprattutto indicando che esiste una Scuola che ha come finalità precisamente questo.

Si è sempre detto che la Scuola si basa sul lavoro, oltre che nel garantire una formazione. Il lavoro è un tratto essenziale della Scuola. la Scuola mette al lavoro lo scarto di cui prima.

Lacan ha iniziato fondando una Scuola, poi per le ragioni che conosciamo di ordine professionale e sociale si è fatto per esempio L’Istituto Freudiano, c’erano ragioni di opportunità per farlo. Ma quale può essere l’interesse, per il Campo freudiano, di accogliere un’istituzione che non riconosce una delle sue parti, la SLP, in quanto, non è in grado di garantire quello per cui è nata?

Ci sono sicuramente mille problemi e mille posizioni soggettive, ma non si può condannare in blocco tutta l’esperienza senza fare distingui, affermando che la Scuola ha un pensiero unico, dimenticando che nella Psicoanalisi si entra uno per uno e che ognuno ha comunque una propria posizione.

Chiedo, quindi, a Recalcati di pensarci su, perché, ne sono sicuro, muoverà in alcuni suoi allievi, interrogativi analitici. Saranno affrontati all’interno dell’IRPA? Tenendo conto che il Campo Freudiano è un’istanza con compiti più generali, come è possibile promuovere il lavoro di cui parlavo anche concreto (vedi Cartel) senza l’istanza simbolica sotto cui si iscrivono? Il lavoro sulla questione analitica ha bisogno di un luogo simbolico e un posto dove si effettua il lavoro. Se manca questo manca la possibilità di dare un posto appunto ai soggetti che si vogliono implicare. Manca soprattutto il luogo della presa soggettiva di parola sulla questione analitica di ogni singolo.


Gelindo Castellarin

Premessa:

Stimo Massimo Recalcati per la sua persona, per i suoi scritti e per affabilità del suo stile.

Lo credo dotato di una fluidità ideativa ed espositiva invidiabile. In particolare, come “esperto” di gruppi (1), ho trovato stimolate e puntuale la sua teoria sui gruppi monosintomatici. All’inizio dell’esperienza Jonas mi ero anche avvicinato al movimento, incuriosito ed attratto da una pratica di psicoanalisi applicata agile, innovativa e giovanile. Ho anche contribuito a costituire il gruppo Jonas di Udine, anche se mi è parso di intendere che Massimo privilegiasse le giovani generazioni piuttosto che “allearsi” ai “vecchi tromboni” di sempre. (2)

Ora, però, di fronte all’atto di Recalcati di istituire una nuova Scuola di Psicoterapia, come docente dell’Istituto freudiano sin dalla sua fondazione, non condivido e non approvo il suo intervento unilaterale.

Argomentazioni:

Cercherò di spiegarmi per brevi punti:

1. Inflazione. Le scuole di psicoterapia riconosciute dal Ministero in Italia (3) sono 257, delle quali 58 ad orientamento psicoanalitico. Sono troppe! Infatti, alcune arrancano per penuria di iscritti, altre, per mantenersi in vita, praticano sconti del 50 %. Se questo è il trend, associato alla delusione degli specializzati che non trovano occupazione, si può agevolmente presumere che i futuri aspiranti ad un corso di formazione, fatti due conti in tasca, si accontentino di un titolo abborracciato alla meno peggio e cioè costo basso e vicino alla porta di casa. Ha senso, allora, contribuire ad una proliferazione di Scuole di Psicoterapia al tempo dell’inflazione?

2. Istituto freudiano. A mio avviso, praticando strade e sentieri della Psicologia italiana, ritengo l’Istituto freudiano una buona scuola di formazione, fortemente orientata alla complessificazione dei problemi e non al riduzionismo pragmatico di molti orientamenti interessati all’addomesticamento dei sintomi. Se c’è uno spazio ulteriore che si dovrà ampliare nella formazione psicoterapeutica è, a mio parere, l’immersione dell’orientamento lacaniano in situ, nelle pratiche istituzionali (quali modelli operativi nei Centri salute mentale, nei Diagnosi e cura, negli OPG, nei reparti dell’Ospedale generale, nelle Psicologia e nella Psichiatria forensi oggi in rapida crescita?) e nelle pratiche del collettivo (quali metodi nella conduzione in comunità di gruppi di adolescenti, gruppi di tossicodipendenti, di alcolisti, gruppi di anoressiche, gruppi di migranti?), ben consapevole che la direzione delle cura nelle psicoanalisi in intensione dell’orientamento lacaniano abbia già una solida base nella AMP-SLP (4) e gli echi che vengono evocati nell’Istituto sono fecondi per il passaggio dal desiderio del terapeuta al desiderio dell’analista. Detto questo, ci si può chiedere se sia necessario istituire un altro Istituto concorrente ed alternativo(IRPA – ISTITUTO DI RICERCA DI PSICOANALISI APPLICATA) per veicolare in primis una psicoanalisi in estensione marcata da Jonas e poi inevitabilmente una SLJ, una Scuola Italiana Jonas di Psicoanalisi del Campo Freudiano? A mio modesto parere (sono solo un semplice parroco di campagna appollaiato sui confini orientali), la risposta è no! Scrive Massimo Recalcati a proposito dell’Istituto Freudiano: “La didattica dell'Istituto Freudiano e la politica culturale della SLP, seppure con differenze sensibili… si reggono a mio modesto giudizio su di una interpretazione scolastica (sia nel senso della burocrazia, sia in quello ontologico) del carattere di eccezione che ciascuno di noi riconosce alla lettura di JAM del testo di Lacan. Un sintomo evidente di ciò che sto affermando? Le tesine dell'Istituto Freudiano, come la stessa produzione scientifica della SLP. Ciò che si incentiva non è la soggettivazione critica della propria esperienza e del rapporto con i concetti della psicoanalisi, ma la loro riproduzione asettica, sterilizzata. Siamo di fronte ad una deformazione universitaria del sapere a cui però si aggiunge un motivo suggestivo…” Personalmente dissento da Recalcati, nessuno mi ha mai impedito nell’IF di testimoniare le mie pratiche, illuminate dalla psicoanalisi lacaniana, nel sociale, nei Tribunali, nella mediazione di genitori prescritta dal Giudice, nei gruppi per adolescenti in neuropsichiatria ed ancora nelle intersezioni della psicoanalisi con le Neuro Scienze. Se uno sforzo ulteriore deve essere fatto per la pratica della psicoanalisi applicata ciò non può che derivare da RIPA e PIPOL e perché no dai parroci di campagna o meglio dagli psicoanalisti scalzi che vogliano portare la loro testimonianza, ma dentro l’Istituto. (5) Quando ci sarà un ostracismo delle idee e delle testimonianze, allora mi rivolgerò al Presidente AMP. Sinora non ne ho avuto il minimo bisogno. In ogni caso se c’è stata una questione etica, di segregazione e di denigrazione non si vede perché scomodare JAM e la SLP per affrontare l’inevitabile oscenità gruppale (6) che caratterizza tutte le scuole, quelle di psicoanalisi comprese. Perché non aprire prima un serrato dibattito dentro l’IF con tutti i docenti per affrontare le questioni che pone ora Recalcati, apertis verbis? Costituire un atto di fatto significa far finta di argomentare ciò che si è già deciso e cioè la scissione. Ritengo la scissione deleteria, oggi più che mai, per l’I.F. e per la SLP.

3. Alea iacta est. (7) Il dado è lanciato e non si può più tornare indietro. La conversazione del 28 ottobre 2007, dietro il fair play e la teoria non può che essere l’apertura dell’oscenità gruppale ben alimenta nei noti fenomeni di gruppo. Nelle scissioni le passioni dell’amore, dell’odio e dell’ignoranza si articolano e si intersecano con ingenua naturalità negli attacchi interpersonali, basculando ricorsivamente e specularmente tra io e gli altri-io, nelle forme binarie del Narcisismo-Altruismo, dell’Amore-Odio, della Competizione-Solidarietà, della Rivendicazione-Negoziazione, della Erotizzazzione-Necrofilia, del Potere-Dipendenza, dell’Aggressività-Cooperazione, del Sadismo-Masochismo, dell’Amicizia-Disprezzo, della Violenza- Riparazione ed d’altro ancora.... Scene già viste alle Stelline l’8 dicembre del 1999, al tempo della precedente scissione. Prepariamoci allo spettacolo interpretato da analisti!

4. Totalitarismo-Libertà. Scrive Recalcati nella sua mail 1: “Non esiste un solo modo per servire la Scuola, non esiste un solo modo di praticare la militanza per la Causa analitica. Esistono molteplici modi di vivere e di praticare il rapporto con la Causa. Non esiste uniformismo nel rapporto con la Causa come ci spiegava JAM nel suo memorabile discorso di Torino. Se invece si impone l'Uno dell'uniformismo non siamo più nel campo della psicoanalisi ma in quello del totalitarismo.” Per noi tutti lacaniani le parole sono verità (anche se non tutta). Evocare il totalitarismo è un gioco da ragazzi. In qualsiasi Consiglio dei Ministri (basta leggere i giornali di questi giorni), come in ogni assemblea di condominio, di partito, di bocciofila o di Collegio di docenti la presentificazione del binario Totalitarismo-Libertà, Causa-Martirio, Imperialismo-Rivoluzione, Poteri-Forti-Poteri deboli rinvia alle strutture narrative della persecuzione. È sempre e solo contrapposizione di poteri. Purtroppo la persecuzione, la segregazione e la tortura vere esistono eccome, ma non mi sembra proprio la condizione di Recalcati, persona intelligente, brillante, movimentista, non certo condizionabile da chicchessia. Se ha fatto il passo, se ha lanciato il dado è perché ha calcolato. Se così non fosse, non avrebbe la statura di leader.

5. È già proprio tutto calcolato? Non lo credo! Il vecchio Partito Comunista e la gloriosa Democrazia Cristiana ci hanno insegnato che nessuno vince mai le battaglie da solo. Un vecchio proverbio di assonanza lacaniana ci ricorda ancora che Non tutte le chiavi pendono da un’unica cintola. Neppure per il Re. Solo un sistema di alleanze, di negoziazione e quindi di perdita di un po’ del proprio godimento può portare da qualche parte. Recalcati ha buone idee, ma le buone idee per raggiungere la propria realizzazione devono poter contare su un sistema forte, negoziato, condiviso, bilanciato del potere, secondo la legge ferrea Bene simbolico da realizzare (la Scuola Una) + Condivisone reciproca del “particulare” guicciardiniano. Un mix quindi di Particulare Vs. Generale. L’economia dei godimenti nei gruppi è micidiale. Non tutta in uno, un po’ per tutti! Nella dicotomia Cooperazione-Competizione Recalcati ha scelto l’ultima, privilegiando la cooptazione dei giovani allievi piuttosto che le difficili e contrastate alleanze con i pari (alias i docenti dell’IF ed i Vecchi analisti SLP parificati a mandarini della conservazione) nella logica di una strategia movimentista di assonanza maoista che ha fatto delle guardie rosse gli apripista della rivoluzione e con i giovani il transfert ha vita facile! È già proprio tutto calcolato? Non lo credo ancora! Senza debito simbolico, senza limiti, senza regole, senza patti, senza riconoscimento della dimensione della finitezza e di un ordine superiore, il successo è assicurato: tutto nei gruppi diventa possibile; la nevrosi nei suoi versanti isterici, fobici ed ossessivi, i fenomeni psicotici con i loro deliri paranoici, la dissocialità caratteriale con ciò che di perverso comporta. Senza una Istanza di garanzia, nel nostro caso la AMP , il destino è lo specchio gruppale e la sua oscenità immaginaria. L’IRPA potrà avere un radioso successo nel sociale ma farà presto i conti, essendo un gruppo e non una Scuola, con i fenomeni di gruppo. La dinamica dei gruppi si fonda sulla domanda di riconoscimento e di amore, domanda velata, opacizzata, spesso misconosciuta. Così, nel coro delle voci gruppali, se si ascolta, si sentiranno intrecciarsi discorsi che non sono nient’altro che rivendicazioni d’amore rivolte al padre, dove gli ideali gruppali (e le ideologie che le ammantano) non sono nient’altro che rivestimenti.

6. L’odio, la persecuzione, il martirio e la domanda al padre: Scrive Massimo Recalcati nella sua mail 2: “Ma Massimo R.! Dai! Cosa ti sei spinto a dire? E a chi parli? A che stai parlando? Non vedi che sei diventato un corpo estraneo per questa comunità e che questa comunità – quella italiana – ti è divenuta a sua volta estranea? Di quanto odio hai ancora bisogno per capirlo? Non ne hai abbastanza? E JAM? Cosa ne penserà JAM? Il tuo maestro, il tuo analista. Perché lo sai che è a lui, come sempre, alla sua chiamata, al suo disegno, alla sua strategia che ancora stai rispondendo. Non è questo un dietro front clamoroso! Non è un voltargli le spalle proprio nel momento più topico! E se invece JAM sapesse ascoltarti, come ha saputo ascoltarti sempre, ancora una volta? Se inventasse una qualche magia, una delle sue? Augurati di no Massimo R.!”. Nella sua passione di identità, il singolo incontra l’odio, la passione dell’odio; è inevitabile! La perdita di consistenza individuale è sempre alle porte, il rivale già implicito nel doppio speculare, come nel desiderio altro della madre, si presentifica negli sguardi, alla domanda di completezza fa da contrappunto l’evanescenza dell’immagine speculare, alla domanda di amore si contrappone la possibile perdita. L’odio quindi è la domanda che si articola dietro ogni fragilità costitutiva dell’essere, dietro ogni vacillare di identità minacciata, dietro ogni impossibile a completarsi, dietro il rifiuto di riconoscimento e di amore dell’altro, amore totale, gratuito, incondizionato. Nei gruppi l’odio è strutturale, fosse anche un gruppo di psicoanalisti. Il problema non è la sua esistenza, del resto mai sradicabile dall’umano, ma il suo riconoscimento e con esso una sua possibile negoziazione. La passione dell’odio (con le sue figure “retoriche” dell’odio invidioso del rivale, dell’odio geloso del traditore, dell’odio euforico della crociata, dell’odio persecutorio della minaccia paranoica, e dell’odio malinconico della colpa autodistruttiva) non è estirpabile se non nel disessere di riconoscimento del proprio oggetto di desiderio, oggetto (a) piccolo, inesistente ma operante; é infatti ciò che ci conduce per mano a nostra insaputa. Ma se tutto si riduce ad immagine, se tutto è riflesso speculare, chi ci assicura che non stiamo sognando, o peggio che non stiamo sognando di sognare? Cartesio ci ha provato ma ha dovuto ricorrere a Dio come garante! Senza debito simbolico, senza Istanze di Garanzia, senza il controllo, tutto cadrebbe nel possibile e il mondo umano non avrebbe più né capo né coda. È la rete dei significanti condivisi, la loro esistenza in quanto differenze reciproche, è il riconoscimento dell’Altro quale luogo e giudice della verità del dire che può solo farsi autentico garante del nostro sognatore! Il ricorso al padre è autentico e sofferto. Ma quando il padre é anche il proprio analista un appello-reclamo unilaterale senza il conforto di tutti gli altri fratelli, apre questioni inquietanti. Se il padre dirà di no Recalcati andrà da Ossicini a cancellarsi?

7. Orizzonti futuribili. Scrive Recalcati: “Un solco etico si è scavato ed è oggi impossibile negarne l'incidenza. Con la nascita dell'IRPA abbiamo costruito un luogo dove potremmo indirizzare chi conosce la psicoanalisi di Lacan attraverso JONAS, o chi la conosce attraverso il nostro lavoro personale nelle Università e nelle Istituzioni della salute mentale, senza però temere di esporli ad un luogo attraversato da un transfert negativo sul nostro stesso lavoro”. Il progetto è chiaro costruire un universo recalcatiano, che protegga i giovani a cui si rivolge nella contrapposizione Imperialismo-SLP contro Libertà-IRPA, attraverso circuiti di reclutamento personalizzati e personificati. Non mi piace per un analista. Preferivo il Recalcati che con il suo insegnamento portava allievi all’Istituto freudiano e argomentava le sue tesi con intelligenza ed eleganza. I temi della persecuzione, dell’isolamento, della contrapposizione, della protezione del verbo e del transfert negativo mi annoiano perché da sempre sono sempre gli stessi. Per alcuni, nel 1999, era JAM l’imperialista ora sono l’IF e la SLP.. ancora! Come andrà a finire? Semplice!

ü Massimo Recalcati constaterà che la maggioranza dei docenti dell’IF non intende seguirlo (anche perché lui stesso non li vorrebbe!) e che la SLP non potrà tollerare una Scuola di Formazione di Analisti di marca jonasiana. L’AMP non può permettersi in Italia due scuole lacaniane che si dilaniano come i galli di Renzo di manzoniana memoria e dovrà scegliere. In ogni caso la guerra per bande è assicurata per il prossimi anni. È questa la psicoanalisi?

Note

1) Mi attribuisco questo qualificatore per aver gestito gruppi di psicodramma lemoniano sin dal 1975.
2) E cioè:Gestaltica (15), Gruppoanalitica (17), Cognitiva, comportamentale e costruttivista (36), Corporea (Bioenergetica, Reichiana, Psicosomatica) (14), Integrato (10), Ipnotica (3), Psicoanalitica (psicodinamica) (58), Psicodramma (6), Psicologia analitica (junghiana) (3), Sistemico-relazionale (familiare) (56), Strategica (e strategica breve) (8), Sviluppo ed età evolutiva (13), Transazionale (9) e Umanistica (rogersiana) (9).
3) J. Lacan, “Proposta del 9 ottobre 1967”, La Psicoanalisi, n. 15, Astrolabio, Roma, 1994, p. 23.
4) Penso che nella formazione degli psicoterapeuti le pratiche di gruppo debbano trovare un loro spazio. Lacan ci indica la prudenza da avere in proposito. “Siccome si sa – scrive Lacan - che io non peso i termini quando si tratta di dar rilievo a una valutazione che, pur meritando un accostamento più rigoroso, deve farne a meno, dirò che misuro l’effetto di gruppo da quanta oscenità immaginaria aggiunge all’effetto di discorso. Tanto meno ci si stupirà, come spero, del fatto di dire che è storicamente vero che proprio l’entrata in ballo del discorso analitico ha aperto la strada alle pratiche cosiddette di gruppo e che queste pratiche sollevano solo un effetto, oserei dire purificato, di quello stésso discorso che ne ha consentito l’esperienza. Nessuna obiezione, qui, alla cosiddetta pratica di gruppo, purché incontri precise indicazioni (ma ci vuole molto). La presente osservazione intorno all’impossibile relativo al gruppo psicanalitico è proprio ciò che ne fonda, come sempre, il reale. Questo reale è questa stessa oscenità: dopo tutto di questa “vive” come gruppo. (J. Lacan, “Lo Stordito”, in Scilicet, Feltrinelli Editore, Milano, 1997, p. 373.)
5) J. Lacan, “Lo Stordito”, ibidem.
6) Il dado è stato lanciato, che evidenzia appunto il fatto che “quel che è fatto è fatto”, spetta solo alla sorte compiere il proprio corso. È una frase attribuita da Svetonio nel suo De vita Caesarum (Divus Iulius) a Giulio Cesare che la proferì dopo aver varcato, nella notte del 12 gennaio del 49 a.C., il fiume Rubicone alla testa di un esercito, violando apertamente così la legge che proibiva l’ingresso armato dentro i confini dell’Italia e dando il via alla prima guerra civile (cfr. WIKIPEDIA).


Adriana Monselesan

La ripetizione è sempre in agguato, ma l’interrogativo sulla psicoanalisi è ciò che interessa di più. Speravo che il brio dell’intelligenza e della preparazione di Recalcati potesse lavorare dall’interno della SLP e che la passione creativa dovesse contribuire
alle istituzioni già esistenti sapendo bene che l’Istituzione perfetta non è di questo mondo. Il reale sempre ci sorprende e corrode, ma non è con questo che bisogna tentare di saperci fare?
Spero che la conversazione del 28 ci apprenda che si può fare, se esiste una mediazione possibile perché Recalcati si ri-fondi con la SLP: altrimenti sapremo perderlo.


Massimo Recalcati

Degradare l’Uno?

Prendo la parola qui, ancora tra di voi, perchè JAM ci ha convocati in questa Conversazione.

Qualcuno, non uno qualunque ma Licitra, ovvero un AE della SLP, nel dibattito preparatorio ha considerato la questione che ponevo intorno al rapporto tra l’Uno e il molteplice come “trita e ritrita” se non addirittura “pretestuosa”. A mio giudizio si sbaglia. Mi pare infatti che questa questione, la questione del rapporto tra l’Uno e il molteplice, resti centrale e la sua scabrosità insuperata. Dunque la ripropongo. La ripropongo nella prospettiva di una possibile politica della psicoanalisi nella contemporaneità: come rendere l’esperienza dell’Uno adeguata al nostro tempo che è un tempo che ha eroso ogni tenuta essenzialistica dell’Uno? Come preservare la possibilità del nuovo? Come evitare che l’Uno uniformi? Come preservare lo spazio singolare dell’enunciazione? Sono domande che mi pongo seriamente, non fosse altro perchè sostengo personalmente, in carne ed ossa, nell’essere qui con voi, il prezzo che comporta porre questa questione.

Voglio però prendere le cose dal loro lato più evidente e da una delle ragioni che ci hanno convocati in questa Conversazione: l’esistenza dell’IRPA. Il nostro nuovo Istituto è una realtà che ha, per primi, sorpresi noi stessi. I suoi programmi formativi sono stati riconosciuti dall’Altro dello Stato. La sua attività didattica inizierà a breve. Per la formulazione della sua impostazione metodologica non abbiamo interpellato né JAM, né il Campo freudiano. Questi programmi non ricalcano in nessun modo quelli dell’Istituto Freudiano, ma nessuno ha mai affermato ingenuamente, come lascia invece intendere sempre l’AE della SLP, che non si genererà tra i due Istituti una logica quanto inevitabile competizione. Il punto non è che non vi sia competizione ma che vi sia competizione virtuosa che rafforzi la causa analitica.

In questa decisione di progettare in maniera indipendentemente l’IRPA abbiamo forzato volutamente una barriera, abbiamo oltrepassato una soglia, come accade in ogni atto creativo, in ogni atto che si sporge necessariamente al di fuori della garanzia dell’Altro. Di questo atto i fondatori di IRPA sono disposti ad assumersi tutte le conseguenze.

Ho informato JAM solo al momento del riconoscimento ufficiale dell’IRPA. Mi sembrava necessario e giusto farlo. Non ho mai, per stile personale, tirato la giacca di JAM né in questa circostanza, né in altre, come invece ha insinuato qualcuno, in questo caso un ex AE. Semplicemente nessuno di noi pensava che questa comunicazione avrebbe aperto una nuova possibile dialettica. Se invece esisteva, come JAM ci lasciava intravedere, la possibilità di una inclusione dell’IRPA nel Campo il nostro desiderio sarebbe stato quello di sostenere con decisione questa possibilità. Con un problema aggiuntivo però: il dissidio non ricomponibile con la SLP. Sulle ragioni di questa impossibilità di ricomposizione il dibattito preparatorio a questa Conversazione è stato eloquente. Ho esposto con franchezza le mie critiche. Gli interventi che sono seguiti le hanno risolutamente respinte. Bene. È un fatto. La SLP piace così com’è ai suoi membri. Idem per l’Istituto. Ma c’è qualcosa che mi ha colpito più radicalmente. Il dispositivo del dibattito, e anche quello della Conversazione, funziona se ci si ascolta davvero. Se, cioè, la risposta non anticipa pregiudizialmente il messaggio. Ho invece l’impressione che sia accaduto proprio questo. Potrei fare numerosi esempi. Ma non ne avrei il tempo. La risposta anticipata sul messaggio rivela un cortocircuito autoritario della comunicazione. Diciamolo più semplicemente: ti ho già letto già prima di leggerti. Solo in questo modo posso intendere degli svarioni giganteschi come quelli che, per esempio, attribuiscono a me e ai miei colleghi dell’IRPA delle dimissioni dalla SLP che non abbiamo mai dato. O, ed è sempre l’AE della SLP, Carmelo Licitra, mi si imputa di voler costringere gli allievi dell’Istituto ad inventare chissà cosa, quando mi ero limitato a dire che in ogni processo formativo esige preservare una soggettivazione critica dei contenuti senza la quale l’assimilazione dà luogo inevitabilmente ad una ripetizione inerte. E allora: quali strumenti potremmo congegnare per valorizzare e non frustrare il tempo della soggettivazione critica? Ancora. Ed è sempre all’AE della SLP Carmelo Licitra a cui mi riferisco: la serie di falsità offensive che avanza circa il lavoro di JONAS, del quale non ha alcuna conoscenza. Sarebbe un luogo a rischio penale dove il suo presidente sguinzaglierebbe giovani arrembanti e irresponsabile in giro per la città a fare conferenze o a dirigere istituzioni cliniche. In questo caso l’AE non dà alcuna prova della misura a cui dovrebbe attenersi la parola analitica. Egli offre una versione caricaturale della nostra Istituzione, la quale, nella sola città di Milano accoglie un centinaio di pazienti a tariffe sociali, garantisce un servizio gratuito per il trattamento dell’iperattivismo infantile, collabora direttamente con un Ministero della Repubblica, organizza corsi di formazione in strutture sanitarie prestigiose, ecc... Altro che ragazzini sguinzagliati nella città!

Constato che qualcosa si è rotto in modo irreversibile nel mio rapporto con la SLP. E sarebbe uno sforzo inutile rimpastare i cocci. Constatare questa irreversibilità è un fallimento innanzitutto personale. Quante volte mi sono chiesto in questi ultimi anni se avevo fatto davvero tutto il possibile per evitare questo esito. Diviso tra l’indignazione e la responsabilità per i ruoli istituzionali che ho occupato non sono forse stato in grado di contribuire efficacemente alla crescita della SLP. Ho fatto quello che ho potuto e oggi incontro il mio limite. È diventato troppo per me. Il capitolo SLP è un capitolo chiuso per me. Ma voglio rassicuro tutti i colleghi della SLP che lavorano in JONAS, offesi dal loro AE Carmelo Licitra, che questo non cambierà nulla nella nostra solidarietà di lavoro. Le porte di JONAS resteranno per loro, così come sono sempre state, porte aperte.

Resta però ancora sul tappeto il rapporto con il Campo Freudiano. Ma non ho nessuna pretesa, come mi si attribuisce, di indicare al Campo Freudiano quale sarebbe la giusta politica se non auspicare che possa essere “laica e illuminata”. Ed è qui che interviene ancora il problema del rapporto tra l’Uno e il Molteplice. Fare posto all’IRPA, alla sua particolarità, sarebbe una degradazione dell’Uno? Sarebbe introdurre un principio di dissoluzione dell’Uno? Sarebbe disorientare il Campo? Oppure introdurrebbe una dialettica nuova, una nuova opzione, una articolazione più complessa e sfaccettata del Campo? Il Campo Freudiano potrà o vorrà ospitare una iniziativa sorta in modo così radicalmente indipendente? L’IRPA potrebbe essere un suo strumento ulteriore per la sua espansione? Questa era per noi la posta in gioco. JAM avrebbe potuto inventare un nuovo quadro istituzionale capace di superare queste contraddizioni?


Commento di Jacques-Alain Miller

Ho chiesto a Carmelo Licitra Rosa di prendere la parola, perché è stato interpellato nel testo di Massimo Recalcati. Prima, però, di farlo parlare, vorrei fare qualche puntualizzazione, come farò nel resto della mattinata, su ciò che abbiamo appena ascoltato, delle puntualizzazioni sui testi che abbiamo ascoltato, delle puntualizzazioni su quello che mi ha interessato in quei testi.

Nel testo di Virginio Baio sono stato contento di apprendere che avevo detto, mi sembrerebbe anche giusto, che “l’errore è la matrice stessa del progresso”. E dunque, credo che questa sia una delle condizioni per la tenuta della Conversazione. Riconoscere i propri errori, non con uno spirito di contrizione ma, al contrario, di contributo all’avanzamento delle cose. Io, nello specifico, riconosco volentieri i miei errori. Ho lasciato andare avanti le cose troppo a lungo. Dunque, volevo dire che, se prima dicevo che ero un padre per finta, molto necessario in Italia, assolvo tutti; l’unico colpevole sono io. Mi propongo, quindi, come capro espiatorio. Se fossi stato più attento alle cose italiane, da cinque anni a questa parte, non avremmo avuto bisogno di fare questa Conversazioni. Ma, al contempo, non posso essere ovunque in ogni momento. E, dopo tutto, senza di me, le cose sono progredite molto in Italia. Non occupandomi troppo, in particolare, delle cose italiane, sono andato molto avanti nella preparazione dei Seminari.

Quindi si sono accumulate un po’ di difficoltà e questo ci obbliga a fare una Conversazione. Non è la fine del mondo. A questo proposito, mi viene in mente una frase augusta di uno dei miei maestri quando ero giovane, la frase di un filosofo cinese che ha raggiunto certe responsabilità politiche a Pechino negli anni ’50, fino al ‘61 circa, che aveva una grande esperienza del potere e ha trovato questo principio che non mi sono mai dimenticato: “laddove non passa la scopa, la polvere si accumula”. Ebbene, è molto vero e, quindi, adesso stiamo facendo le pulizie in ritardo. Ripuliamo le nostre vecchie idee.

Riguardo, invece, al testo di Bossola ecco quello che mi viene da pensare. La frase che mi ha toccato è la seguente “non si può condannare in blocco tutta l’esperienza senza fare distingui, affermando che la Scuola ha un pensiero unico, dimenticando che nella Psicoanalisi si entra uno per uno e che ognuno ha comunque una propria posizione. Chiedo, quindi, a Recalcati di pensarci su, perché, ne sono sicuro, muoverà in alcuni suoi allievi, interrogativi analitici. Saranno affrontati all’interno dell’IRPA?”. È interessante.

Per Gelindo tutto è interessante, ma è molto lungo, lo avete già ascoltato e, dunque, non occorre che ve lo riassuma.

Se riassumo l’intervento di Adriana Monselesan ci resta ben poco. Lei, comunque, saluta il brio dell’intelligenza di Recalcati, spera che egli possa continuare a lavorare all’interno della SLP, per questo si augura una mediazione che permetta a Recalcati di rifondersi con la SLP. È una previsione mitologica. E, riguardo all’ultima frase, Adriana è stata rapida ma molto precisa. Lei spera nella rifusione di Recalcati dentro la SLP – questa è una visione degna delle Metamorfosi di Ovidio – e, alla fine, ci dà una frase degna di Stalin: “Altrimenti sapremo perderlo”. Questa è una donna. Mi fa pensare a Cecilia Sarkozy. È esattamente quello che Cecilia Sarkozy ha chiesto al Presidente della Repubblica, chiede appunto una rifusione: o ci rifondiamo tutti e due oppure saprò perderti.

Ora Massimo Recalcati, molto atteso nel suo intervento, ovviamente. Lui dice che questa settimana è stata dura, ma è stato comunque lui la vedette ed è stata, quindi, una soddisfazione. Conosco anch’io questa cosa. Recalcati parla della comunicazione all’interno della conversazione della Scuola. Ha aggiunto qualcosa alla fine del suo testo, che non ho capito bene, ma il suo tema è all’incirca “la conversazione è finita ancor prima di essere cominciata”. Questa non è la mia opinione.

Massimo Recalcati: Prima di leggere il Comunicato n. 6 avevo pensato di concludere l’intervento evocando questa canzone: “la conversazione appena cominciata è già finita”. Dopo il Comunicato n. 6 concludevo in modo più allegro evocando la metafora dell’apache e di essere molto contento di essere un apache tra gli apache della psicoanalisi.

Jacques-Alain Miller: Allora, ecco quello che ho tratto dall’intervento di Massimo. In primo luogo “abbiamo forzato volutamente una barriera, abbiamo oltrepassato una soglia, come accade in ogni atto creativo, in ogni atto che si sporge necessariamente al di fuori della garanzia dell’Altro. Di questo atto i fondatori di IRPA sono disposti ad assumersi tutte le conseguenze”. Ecco. Questo è assolutamente chiaro ed è molto più chiaro di una settimana fa.

Seconda cosa perfettamente chiara, che Massimo chiama “un problema aggiuntivo”: “il dissidio non ricomponibile con la SLP” e aggiunge “gli interventi che sono seguiti […] le hanno risolutamente respinte. Bene. È un fatto. La SLP piace così com’è ai suoi membri. Idem per l’Istituto”. Dunque riconoscimento di un fatto: la SLP piace così com’è ai suoi membri, idem per l’Istituto.

In terzo luogo, Massimo mette in questione quello che lui chiama, con una bellissima formula, “un cortocircuito autoritario della comunicazione. […] ti ho già letto già prima di leggerti”. Vorrei dire che, in ogni caso, io non faccio affatto così e ho l’impressione che non è così che sono andati avanti gli Scambi. Al contrario, abbiamo atteso e abbiamo visto prodursi un processo di chiarificazione di cui testimonia il testo di Massimo Recalcati di questa mattina.

Io ho aperto questo spazio affinché si scrivesse perché questo non era già scritto; dunque, io non ho individuato, dalla mia posizione, “un cortocircuito della comunicazione”. In compenso ho individuato molte cose per le quali non ho ancora un nome preciso, se non, potremmo chiamarla così, un’inconsistenza metodica della comunicazione. Invento questo adesso, in parallelo al “cortocircuito automatico”; io parlo, invece, di inconsistenza metodica della comunicazione.

Nello stesso testo di Massimo che abbiamo ascoltato troviamo i seguenti enunciati: 1) “il dissidio non ricomponibile con la SLP”; 2) mette in questione “quelli che […] attribuiscono a me e ai miei colleghi dell’IRPA delle dimissioni dalla SLP che non abbiamo mai dato”. 3) Terzo enunciato: ”qualcosa si è rotto in modo irreversibile nel mio rapporto con la SLP.” 4) “È diventato troppo per me. Il capitolo SLP è un capitolo chiuso”. Posso citare, inoltre, la lettera che Massimo Recalcati mi ha inviato, quando poi ho deciso di dare luogo a questa Conversazione: “ribadiamo la nostra precisa volontà a recidere ogni nostro rapporto con la SLP”. Al contempo, quindi, c’è un “dissidio non ricomponibile”, ma “non abbiamo mai dato dimissioni dalla SLP”, ma “è rotto in modo irreversibile ogni rapporto con la SLP”.

Quindi, quando alla fine del suo intervento Massimo pone la domanda “Fare posto all’IRPA, alla sua particolarità, sarebbe una degradazione dell’Uno? […] Sarebbe disorientare il Campo?” Disorientare il Campo con un’inconsistenza metodica? Debbo rinunciarvi? I rapporti sono rotti, ma poi non do le dimissioni, è un’inconsistenza logica che ha prodotto un disorientamento del Campo per il quale mi congratulo. Io passo la mia vita a orientare il Campo Freudiano ma, dopo, lascio che vada nella propria direzione. Come dice Antonio di Ciaccia io fisso la politica, poi dopo la strategia e la tattica sono gli altri che la fanno.

Quando si è nel deserto dell’Arizona, si può lasciar correre la locomotiva per cinque anni senza problemi, ma, quando si è in Europa, si deve manovrare la locomotiva da vicino. Dunque, io ritengo che Massimo, in effetti, abbia suonato un campanello d’allarme disorientando il Campo Freudiano, evidentemente attraverso un’inconsistenza logica nei suoi enunciati nei confronti della SLP. Io dico che va molto bene poiché abbiamo bisogno di un momento di disorientamento. Ed è questo che ci permette oggi di elaborare un orientamento rinnovato su quello che Massimo chiama, alla fine del suo testo, “un nuovo quadro istituzionale” e che Licitra Rosa – che egli critica – chiama invece “una nuova identificazione”. È comunque divertente che Recalcati critica Licitra Rosa e poi Licitra Rosa critica Recalcati, e Recalcati critica Licitra Rosa – Licitra Rosa prenderà la parola fra poco – ma, sulla questione del nuovo, c’è lo stesso tipo di appello. Questo non è un corto circuito autoritario della comunicazione e questo nessuno poteva saperlo, neppure io, prima di leggere i testi e li ho letti stamattina alle sei. Ora chiamo alla tribuna Carmelo Licitra Rosa.


Carmelo Licitra Rosa

Tra impegno e disincanto

Primo punto.

L’uno e il molteplice: binomio insidioso e difficile da articolare, essendo i due termini all’apparenza antinomici. Cos’è l’uno? È il vuoto – o il reale, se si vuole – su cui è fondata la scuola di Lacan. Cos’è il molteplice? È il sapere che vi ruota intorno, quello che si elabora in questa Scuola. Dunque il binomio, che prima sembrava un’aporia irrisolvibile, in questo modo può reggersi: reale versus sapere; a versus S(A/). In tal modo si vede che l’uno non è primitivo ma derivato, come è proprio della struttura in cui un S1 può prestarsi a nominare a.

Conseguenza: se il vuoto, che è uno, è l’unico fondamento della Scuola, allora non può che esserci una sola Scuola, l’AMP. Mi piace a tal proposito richiamare una puntualizzazione di rettifica fatta da Jacques-Alain Miller in occasione di uno dei tanti dibattiti preparatori alla creazione della Scuola italiana, ovvero che la SLP sarebbe stata la Scuola dell'AMP in Italia e non la Scuola italiana affiliata all’AMP: nel qual caso potrebbero, come avrebbero potuto, essercene di altre. Questo luogo che è la Scuola – la cui unicità appare in alcun modo negoziabile – è la casa del molteplice, un molteplice orientato dal fatto di gravitare intorno a quello stesso vuoto che della Scuola è il pivot. Benvenuto dunque chiunque si sappia fare di un tale sapere fornitore e promotore; se del caso, anche inventando e costruendo nuovi contenitori e dispositivi, purché minimamente strutturati, sull’esempio del cartello che è la matrice originaria di tali apparati, presunti poter favorire e catalizzare questa elaborazione e questa produzione.

Anche l’Istituto non può che essere uno. E perché? L’Istituto non è la Scuola. Sì, è vero ma è a questa strettamente articolato, in quanto ad esso è demandata una parte, basale o propedeutica che dir si voglia, della formazione analitica, la cui responsabilità ultima, come ben sappiamo, appartiene alla Scuola. Dunque l’Istituto è uno perché una è la Scuola, che gli affida una parte del mandato formativo, sua prerogativa esclusiva. Fatta salva questa premessa, anche all’interno dell’Istituto in modo correlativo può albergare, o potrebbe albergare, il molteplice.

Secondo punto.

Se è vero quanto detto fin qui, l’indebita accentuazione di un molteplice disancorato dall’uno appare finalmente per quella che é: un’aberrazione. Che deriva da dove? A mio avviso, dalla rincorsa forsennata del contemporaneo, con tutti gli inevitabili ricaschi di accecamento o di offuscamento.

“Siate fortemente contemporanei” – ci ha lasciato in eredità Lacan. D’accordo, ma egli non ha voluto, o non ha potuto, dirci quale strategia seguire. Problema dunque aperto.

Si potrebbe pensare, a mio parere erroneamente, che per essere contemporanei fino in fondo bisognerebbe ingaggiarsi nella polemica, ritagliandosi un posticino nel grande agone del dibattito mediatico, che certo non ci ama ma all’occasione non ci disdegna. L’analista critico, controcorrente, che leva alta la sua voce dalle odierne tribune, fino alla patetica vox clamantis in deserto... Non dico che non bisogna farlo, purché siamo consapevoli che è perfettamente inutile. La schiera dei delusi – e di quale calibro – non si conta, cito solo: Pasolini, Montanelli, l’inglese Auden, Lacan stesso. Sì, proprio Lacan, che nei primi anni del suo insegnamento aveva sfoderato le sue doti di polemista impareggiabile, in Televisione affermava che la denuncia produce l’effetto paradossale di… consolidare ciò che si denuncia.

E poi non è così sicuro che il mondo voglia ascoltare il discorso della psicoanalisi, che fa buco – come ricorda da Jacques-Alain Miller nella prima lezione del suo ultimo corso – nel discorso universale. Sicché, ostinarsi a volerlo annunciare ad ogni costo, o condanna all’oblio (come ci ricorda Leopardi) o minaccia di sollevarci contro la più temibile ostilità (basta pensare a Socrate, pertinace frequentatore dell’agorà).

Se la polemica non promette molto, allora per interagire col presente non resta che il rinnovamento. Sempre qui a Milano, Jacques-Alain Miller contrapponeva Giovanni XXIII a Pio IX, l’audacia del Concilio ai timori del Sillabo. Questo è vero. La Chiesa cattolica fece uno sforzo encomiabile per tenere il passo coi tempi ma i risultati attesi, ovvero l’auspicato nuovo connubio con una società al contrario sempre più laica e scetticheggiante, non si sono registrati, o perlomeno non nella misura sperata. A quasi quarant’anni dal Concilio, coloro che ne erano stati gli entusiastici propugnatori oggi si confessano delusi, se non del tutto almeno in parte. Come riportano le statistiche, il cattolicesimo arretra visibilmente, così che, se Lacan ha potuto profetizzare il trionfo della religione, non altrettanto sicuro è che a trionfare potrebbe essere proprio la religione cattolica o non piuttosto una religiosità inedita, curioso miscuglio di nuovo e di antico, dai contorni forse un po’ New Age. Innanzi a questa constatazione, le gerarchie ecclesiastiche hanno cercato di mitigare un po’ l’impeto, la foga iniziale di questo abbraccio col presente, non senza il mugugno e i malumori dei progressisti.

E noi? Se è sicuro, come è sicuro, che dobbiamo rifuggire la tentazione di rintanarci entro le stanze rassicuranti di un museo, altrettanto guardinghi dovremmo forse essere verso le voraci, insaziabili sirene del nuovo! Un nuovo che, lungi dall’essere noi a permearlo, minaccia al contrario di avvolgerci nelle sue spire, facendoci smarrire la nostra bussola.

Lacan diceva in Radiofonia che le uniche vere trasformazioni possono provenire non dalle violenti scosse delle rivoluzioni, ma dai lenti effetti di propagazione indotti dagli spostamenti del discorso. La fioritura della Scolastica ed il miracolo del Rinascimento in Europa sono due esempi di effetti provocati da questo spostamento del discorso. Provocati in particolare dalla collisione di due discorsi, rispettivamente quello aristotelico e quello platonico, che, riesumati dalle polverose biblioteche in cui dormivano grazie alle buone cure dei monaci o degli arabi, impattavano nella compagine culturale dell’epoca facendo scoccare la scintilla di un nuovo veramente fecondo. Non sono qui per invitare la nostra comunità ad assumere una nuova identificazione, quella degli arabi o quella dei monaci amanuensi. E il Campo freudiano non è un convento. No, di certo. Ma forse, mi piacerebbe invitare a ridimensionare quegli aneliti un po’ troppo esuberanti, a temperare quegli slanci appassionati ma un po’ acritici, perché fortemente a rischio di rimanere irretiti nel ridicolo miraggio di voler interferire nella rotta lungo cui corre la civiltà, quando già semplicemente intercettarla nell’uno per uno sarebbe un successo di cui andare fieri. Forse, come nel tardo ellenismo, epoca colta e raffinata ma fatalmente avviata verso un declino inevitabile, che tutta la summa del suo splendido sapere non sarebbe valsa ad arrestare, forse come allora dobbiamo pensarci più modestamente, più umilmente come uno sparuto manipolo di stoici o di scettici, a coltivare nell’oasi della Scuola un’etica che possa contrastare il disagio della civiltà: ieri il capriccio del tiranno, oggi la cecità della scienza.

Tutto ciò non può, non deve suonare come un ripiego, né come un arretramento per una comunità che, senza risparmiarsi, sa accorrere verso l’urgenza del presente con iniziative generose e disinteressate. No! È solo la necessaria consapevolezza, o il disincanto se si vuole, che deve accompagnare la nostra azione, sottraendoci al richiamo ottundente dei grandi effetti di massa (tanti allievi, tanti pazienti, fama, notorietà…) fino a indurci a pensare che forse una nuova epoca è veramente giunta, o starebbe quanto meno imminente: quella in cui lo psicoanalista non è più una figura rispettata e prestigiosa ma marginale e sempre più abietta, in cui lo psicoanalista non è più un panciuto e prospero borghese ma un modesto proletario. Da qui forse ricomincerà a crescere per lui un nuovo successo.


SECONDA SEQUENZA


Emilia Cece

Amici miei,
siamo chiamati oggi, nello stesso luogo del dicembre ‘99, a conversare per riverificare l’Unità della Scuola. È questo un momento che richiede grande serietà. Il progetto sostenuto da Recalcati, per il quale egli ha lavorato nel corso degli ultimi tempi con amici e colleghi, apre a noi questioni di fondamentale importanza che, almeno in parte, non sono solo la conseguenza di una deviazione o di una eresia, ma frutto di una crescita che abbiamo prodotto noi tutti.

L’estensione del campo psicoanalitico in Italia è fatto storico, nel bene e nel male ne abbiamo voluto le vicende con passione, forse nemmeno abbiamo potuto valutarne sino in fondo le conseguenze.

Nel mio intervento di Scambi, ho sottolineato alcune specificità determinate nel nostro paese dalla contingenza della Legge Ossicini, faccio l’ipotesi oggi che ciò di cui discutiamo, diversamente da ciò che ci ha coinvolti nel ‘99, sia un sintomo che concerne l’interfaccia tra legge (dunque il mercato) e la psicoanalisi in estensione nella sua forma applicata.

Un sintomo tutto italiano, collegato forse allo stile politico del nostro paese, nel quale qualcuno si è lanciato, facendosi incantare.

Ma veramente pensavamo di poter formare tanti psicoterapeuti alla psicoanalisi? Veramente pensavamo di poter fare della Legge Ossicini una porta di accesso ad un preliminare? La mia risposta è sì, ma contemporaneamente mi dico anche che ho creduto ed ho scommesso su di un impossibile.

Vi sono due questioni:

1) l’estensione della psicoanalisi inaugura nuovi stili di lavoro e sollecita iniziative nelle istituzioni all’insegna della varietà e di una certa imprenditorialità.

2) Il marchio distintivo dell’analista lacaniano nella fase iniziale della sua formazione, sebbene sia un marchio di qualità, non ha visibilità. Le due questioni sono articolate strettamente tra loro ed implicano il punto cruciale della qualità e della garanzia. Un dato italiano, che possiamo definire già tendenza, è di fare in modo che la formazione in psicoterapia sia di qualità solo se inserisce nel mondo del lavoro, che le supervisioni siano valide solo se effettuate nelle istituzioni, che siano in linea di massima obbligatorie, in qualche modo standard.

Questa tendenza è l’organizzazione del mercato inaugurata dalla legge Ossicini. I mercanti della formazione sono pronti per l’occupazione del territorio e non resterà più molto spazio al Soggetto supposto Sapere.

Si tratta di un quadro allarmante, sotto gli occhi di tutti, che vede avanzare una cultura fatta di collage olofrastici, di prescrizioni cognitiviste barattate come interpretazioni di gran classe. Il significante “lacaniano” è in corsa con tutti gli altri. Il mondo degli psicoterapeuti è come il campo di cricket della partita di Alice: senza regole, senza tecnica, tutti gli strumenti sono consentiti.

“L’entusiasmo non manca!” – dice uno – “È stata una bella partita!” – dice un altro. Ma alla fine tutto è scompaginato e qualcuno tenta di nuovo di tracciare i limiti del campo. I “limiti”, potrebbe essere questa una parola chiave!?

Lacan sognava una Scuola di AE, affermava che psicoanalisti non si nasce, dava alla passe il valore di una scommessa.

Come legare oggi, questi due mondi? Come ridefinire i nostri limiti per ritrovare la nostra identità?(Sarà questo il tema di una prossima giornata di lavoro italo-spagnola, mi sembra!)Abbiamo accettato una sfida ed abbiamo affermato che non esiste psicoterapia senza psicoanalisi, che non c’è psicoanalisi in estensione senza psicoanalisi in intensione.

Queste coordinate irrinunciabili, sono le sole che ci possono salvare dal canto delle sirene e dalle insegne di mercato. Queste coordinate orientano il Campo Freudiano in una topologia che abbraccia l’estensione ma che ha valore se ritrova un punto di annodamento nell’intensione che l’analista è.

Non è il campo della democrazia, non è il luogo della politica di accumulo e delle risorse, non è un collettivo.

L’analista che lo fa esistere, è l’analista della Scuola di Lacan. Dove trovarlo, dunque se Lacan stesso ha detto che non esiste?

Se non ha estensione, non ha forma, non costituisce un insieme, se non se ne possono nominare gli elementi?

Il contributo degli allievi dell’Istituto freudiano dimostra che qualcuno domanda e che ora, qualche analista deve rispondere. Deve innanzitutto rispondere del disagio della civiltà, al di là delle forme di confusione generate dalla politica e dai gruppi, e deve usare come base operativa la Scuola. È questo il momento di rilanciare la Scuola, non di criticare! Di rilanciare la SLP con l’AMP.

Cerchiamolo tra di noi dunque l’analista e non altrove, perchè se non lo troviamo, dobbiamo cercare ancora. Tutto ciò che facciamo, tutto il nostro lavoro è un modo per cercarlo, ma se non lo troviamo, non possiamo rigettare le nostre responsabilità su nessun altro. L’alternativa, è tornare a casa, amare i nostri figli, amare altrove.


Domenico Cosenza

Cari Colleghi,
il dibattito elettronico a cui JAM ha convocato la comunità del Campo Freudiano in Italia è stato fin qui appassionante, ed ha messo in tensione il nervo vivo della Scuola e di ciascuno dei suoi membri, come accade nei momenti di estrema urgenza, in cui la posta in gioco per l’avvenire della Scuola e della psicoanalisi lacaniana in Italia è alto. In questo senso, esso può essere già considerato un primo successo: ha dimostrato il forte attaccamento della comunità italiana del Campo Freudiano alla causa analitica ed alle istituzioni che la rappresentano, in primis alla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi. All’interno di un dibattito aperto e democratico, nel quale chiunque lo volesse (membro della SLP, colleghi di altre Scuole del Campo Freudiano (Laurent, Palomera, Esqué), partecipante, ex-allievo dell’IF, allievo dell’IF) poteva intervenire ed esprimere liberamente, senza la minima censura il suo pensiero, abbiamo assistito in questi pochi giorni ad un fiorire d’interventi in cui si avvertiva la forte implicazione soggettiva di chi si esprimeva attorno al nodo della questione che Miller ci ha trasmesso, provocando la nostra risposta verso la Conversazione di oggi. Un primo dato emerge da questo dibattito, come elemento oggettivamente ineludibile, che non può a mio avviso non essere assunto come un orientamento netto di desiderio della Comunità italiana del Campo Freudiano: il rifiuto di dissociare l’esistenza di un Istituto del Campo Freudiano in Italia dal suo rapporto strutturale con la SLP. Attorno a questo punto, in questa congiuntura critica particolare, la Scuola nel suo insieme, fatta della singolarità di ciascuno dei suoi membri, ognuno a partire dalla propria posizione particolare espressa con sfumature diverse all’interno del dibattito, trova un punto di convergenza straordinaria che rivela la forza del suo legame, e che la rende Soggetto. La Scuola Italiana, messa in questione nel più intimo del suo essere, risponde, e non solo per difendersi. Del dibattito elettronico colpisce il contrasto tra la pluralità differenziata delle voci dei colleghi della Scuola, che tenendo fermo il principio archimedico della centralità della SLP si aprono a posizioni anche diverse sul problema del riconoscimento di un istituto che accetti di sottostare a tale principio, e la sola voce di Massimo Recalcati in difesa della ragioni del suo istituto antitotalitario. Mi auguro che nella conversazione di oggi, gli altri colleghi che con lui hanno condiviso il progetto IRPA vogliano pronunciarsi uno per uno, e farci sapere in che modo la SLP è divenuta per ciascuno di loro una realtà così insopportabile da dover essere rigettata. Voglio sperare che non sia la sola voce di Recalcati ad animare l’avvenire di questo istituto che si vuole programmaticamente antitotalitario e plurale, in contrasto al monolitismo dogmatico dell’Istituto Freudiano e della SLP.
Detto questo, occorre fare a mio avviso di questa congiuntura critica l’occasione per un rilancio vero ed ulteriore del Campo Freudiano in Italia, che veda al centro la SLP come soggetto che si fa carico delle contraddizioni che ostacolano l’avanzata del Campo Freudiano, e dunque in primis delle sue stesse contraddizioni. Molto è stato fatto in questi anni, molto rimane da fare. La SLP è una giovane Scuola del Campo Freudiano, nata tra mille difficoltà, con alle spalle la storia alquanto controversa del lacanismo in Italia, fatto sostanzialmente del netto prevalere di una logica gruppale su una logica di Scuola, e della centralità personalistica di alcuni leader carismatici che hanno confuso se stessi con la causa analitica, portando negli Anni ‘70 e ‘80 agli esiti disastrosi che conosciamo tutti, e di cui non abbiamo ancora finito di scontare gli effetti nella società italiana.
Rispetto a tutto questo, l’avviamento prima dell’Istituto Freudiano, ed in seguito della SLP, hanno costituito un indubbio avanzamento, incardinando i destini del lacanismo in Italia all’orientamento del Campo Freudiano avviato da JAM. In questi cinque anni della sua esistenza, la SLP ha fatti molti passi in avanti nel solco del Campo Freudiano, la cui testimonianza recente più avanzata possiamo raccoglierla nella dominazione dei due AE italiani, i nostri colleghi Carmelo Licitra Rosa e Massimo Termini. Rimane a mio avviso da ripensare e rilanciare in modo coraggioso e inventivo il rapporto della SLP con la società italiana e con le sue istituzioni, cliniche, culturali, universitarie, politiche e amministrative, in modo da poter costituire nei prossimi anni una presenza riconoscibile ed autorevole, capace di offrire all’Altro sociale una interlocuzione e dei luoghi di risposta orientati dalla psicoanalisi, di cui esso possa arrivare a riconoscere, con il proprio linguaggio, l’efficacia. In questa prospettiva si situa l’avviamento dei Centri Clinici di Psicoterapia e di Psicoanalisi Applicata di Roma e di Milano, che si orientano sulla scia dei CPCT.
Occorre inoltre a mio avviso, come ha sottolineato giustamente nel suo intervento Adele Succetti, fare una riflessione che ci permetta di interrogare e trovare delle modalità di risposta attorno al problema di coloro che si formano all’Istituto ottenendo il diploma di psicoterapeuta, e che trovano alla fine di tale iter una difficoltà di accesso alla Scuola, che non ritengo utile per noi imputare soltanto alla debolezza del loro desiderio verso la psicoanalisi. Credo che su questo punto, le condizioni di un rilancio di desiderio stia anche a noi doverle offrire, per permettere alla decisione ineludibile del soggetto di trovare un ancoraggio più accessibile e riconoscibile.
Infine, penso che la SLP abbia in questo momento particolare il compito di fornire, a tutte quelle persone che operano nelle istituzioni terapeutiche a partire da un transfert sull’orientamento lacaniano, un punto di ancoraggio chiaro che vada al di là delle appartenenze istituzionali, come del resto è stato deciso in questi ultimi anni. L’esempio paradigmatico al riguardo è il RIPA. Come rappresentante italiano del gruppo di coordinamento europeo del RIPA, conservo nella lista delle istituzioni terapeutiche trasmessami da Virginio Baio l’elenco di tutte quelle istituzioni che hanno voluto iscrivere il loro operato nel solco del Campo Freudiano e a partire da un transfert di lavoro verso la Scuola Lacaniana di Psicoanalisi e l’AMP. È importante che ciascun operatore che trova il proprio orientamento nel campo freudiano e nella SLP sappia d’incontrare un rispetto assoluto della sua posizione al di là delle istituzioni terapeutiche in cui opera.





Antonio Di Ciaccia

La Scuola e il gruppo

La situazione attuale mi ha spinto a riprendere un passo di Lacan sulla Scuola e il gruppo. Il passo si trova nell’Étourdit, Lo Stordito.

Scrive Lacan: “Ho il compito di tracciare un cammino (Lacan utilizza il verbo frayer) dello statuto di un discorso, proprio là dove io situo che ci sia. discorso: e io lo situo [questo discorso] a partire dal legame sociale al quale si sottomettono i corpi che – questo discorso – labitano”.

[Labitano, voce del verbo labitare, tutto attaccato. È un termine inventato da Lacan: il verbo abitare si condensa con labile. A un orecchio francese ci si aggiunge inoltre un accento di riferimento fallico: la bite].

Lacan qui non utilizza il termine di discorso come comune denominatore dei quattro discorsi, ma lo evidenzia invece come un discorso che emerge da quel legame sociale particolare al quale si sottomettono i corpi. È un discorso che è abitato dai corpi – i corpi, dunque, e non le parole – corpi iscritti in quella differenza che si sostiene dal riferimento fallico, sebbene questi corpi abitino questo discorso in un modo labile. Ma Lacan, di quale discorso parla? Continua il testo.

“La mia impresa sembra disperata (lo è proprio per il fatto stesso: è qui il motivo della disperazione) poiché è impossibile che gli psicoanalisti formino un gruppo”.

Strana affermazione. Si tratta dunque di un discorso che, differentemente dagli altri, non permette il gruppo. Fa legame sociale ma non gruppo. Tutti gli altri discorsi fanno legame sociale e gruppo. Per esempio lo fa in modo princeps il discorso del padrone poiché è il legame sociale per eccellenza. Lo fa, come tutti sappiamo, il discorso dell’università, sia nel raggruppare gli studenti, sia nel raggruppare tutti quelli che si trovano inclusi in una burocrazia. Lo fa addirittura il discorso dell’isterica: che fanno gruppo intorno al guru o al santone. Solo a un discorso è impossibile fare gruppo.

E perché è un’impresa disperata? Perché gli psicoanalisti non possono formare un gruppo? Lacan qui, in questo punto, non lo dice. In una modalità che si ritrova spesso, Lacan prima dice una cosa e solo dopo l’argomenta, però quando la dice, la dice come se fosse già argomentata. Oppure a volte tratta di qualcosa e solo dopo sappiamo di che cosa parla. Qui infatti fa capire di che cosa egli stia parlando usando come chiave la ripresa del verbo frayer, nel suo sostantivo frayage, tracciare un cammino, collegando così quanto sta argomentando con il tema di cui vuol parlare. Lacan continua.
“Tuttavia il discorso psicoanalitico (è questo il cammino che traccio, c’est mon frayage) è proprio quello che può fondare un legame sociale ripulito da ogni necessità di gruppo”.

Dunque, il discorso psicoanalitico è un legame sociale. Solo che questo discorso, discorso che lega due corpi, direi, due corpi in presenza – li lega in modo strano, strano com’è un’analisi, che è composta dalla presenza dei corpi di un analizzante e di un analista.

Ora, passando dalla frase in cui parla non dell’analizzante e dell’analista, ma degli psicoanalisti, – “è impossibile che gli psicoanalisti formino un gruppo” – alla frase seguente in cui Lacan parla “del discorso psicoanalitico in quanto ripulito da ogni necessità di gruppo” Lacan applica il discorso psicoanalitico agli psicoanalisti in quanto tali, psicoanalisti al plurale. E non solo quindi al rapporto analizzante-analista. Come se dicesse che tra gli psicoanalisti è possibile un legame sociale ma che è escluso che questo legame sociale costituisca un gruppo.

Mi ha colpito questo aspetto perché, a mio parere, è la traduzione lacaniana di una frase di Freud (che non ho avuto il tempo di ritrovare), frase che indica in che modo Freud intratteneva i rapporti con i colleghi. Cito a memoria: tratto i miei colleghi come tratto i miei analizzanti. È una frase che si presta a più di un equivoco. Per esempio potrebbe essere intesa nel senso che lo psicoanalista deve piazzarsi, nei confronti dei colleghi, come un supponente, ovvero uno sputasentenze, o ancora uno psicoanalista in servizio permanente. O in altri sensi spuri ancora.

Mi sembra invece che il senso da dare a questa frase sarebbe questo: lo psicoanalista deve adoperare la parola con i colleghi esattamente come egli la usa con i pazienti. Non quindi con la saggezza, ma con la stessa prudenza (fronesis, come la chiamava Aristotele) con cui lo psicoanalista maneggia la parola con i pazienti.

Credo però che Lacan, applicando il discorso psicoanalitico agli analisti tra di loro, voglia sì indicare che la parola detta al collega si attenga alla stessa modalità che si ha in analisi: di attenzione, riserbo, prudenza, del dire-a-metà tipico della verità in gioco nel discorso analitico. Ma voglia dire anche di più.

Che vuol dire? Che vuol dire che questo discorso esclude il gruppo? Che cosa implica il fatto di fare gruppo? Implica il fatto che negli altri discorsi i protagonisti possano associarsi in modo stabile, uno come simmetrico all’altro. Mentre nel caso dell’analizzante-analista e nel caso degli psicoanalisti tra di loro vuol dire che il loro associarsi resta labile, e il loro rapporto sempre dissimmetrico.

Il discorso psicoanalitico è quindi un legame sociale che non fa gruppo, che si fonda sulla disperazione stessa di mai poter fondare un gruppo. In fondo il discorso psicoanalitico si basa, paradossalmente, sul rovescio di ciò che è la base degli altri discorsi. In questi è il discorso che fa gruppo; nel discorso analitico invece il gruppo danneggia il discorso.

Dice Lacan: “io misuro l’effetto di gruppo da quanta oscenità immaginaria esso [cioè l’effetto di gruppo] aggiunge all’effetto di discorso”.

All’effetto del discorso, che è di ordine simbolico, l’effetto di gruppo porta, aggiunge, un’oscenità che è dell’ordine dell’immaginario. L’osceno, l’ob scenam, ciò che viene messo in scena, ciò che viene messo in piazza: ecco che cosa si può vedere quando all’effetto del discorso analitico si aggiunge l’effetto del gruppo.

“La presente osservazione circa l’impossibile a proposito del gruppo analitico è proprio ciò che ne fonda, come sempre, il reale. Questo reale è questa stessa oscenità: dopo tutto di questa oscenità esso [il gruppo analitico] «vive» come gruppo [cioè in quanto gruppo]”.

È questa oscenità gruppale che preserva l’internazionale, ricorda Lacan. Che la preserva dunque dal discorso analitico stesso. È questa oscenità gruppale che Lacan dice di voler proscrivere dalla sua Scuola.

Credo che con questo testo Lacan ci dimostri perché gli psicoanalisti possano e debbano sostenersi di quel legame sociale che è il discorso analitico. La Scuola deve basarsi sul discorso analitico, che non è e non può essere la base un gruppo, qualunque esso sia.


Martin Egge

Colgo con un certo imbarazzo l’invito di Jacques-Alain Miller a questa Conversazione per discutere su una questione rispetto alla quale Massimo Recalcati ha di fatto escluso come interlocutori i membri della SLP e i docenti dell’Istituto freudiano rivolgendosi esclusivamente a Jacques-Alain Miller e al direttivo dell’AMP.

Otto anni fa, in un’occasione purtroppo simile, ho preso la parola per dire che si trattava di un “dopo-gioco” e la stessa cosa mi sembra avvenga ora.

Dopo la creazione di Jonas e di un Istituto, Recalcati aggredisce, sia sul versante etico che scientifico, le istituzioni alle quale ha partecipato fino a poco tempo fa in posizioni apicali. E di questo mi rammarico.

Se la SLP e l’IF gli stavano troppo stretti, nessuno poteva impedirgli di creare le sue istituzioni. Ma trovo ingiustificabile questo attacco frontale nei confronti della SLP e dell’IF. Sono sempre stato interessato ad ascoltare delle critiche in senso costruttivo nei confronti delle nostre istituzioni e sarei stato lieto di discuterle insieme. Già otto anni fa, Jacques-Alain Miller ha sottolineato che la questione principale non è quale critica, ma da che posto venga indirizzata tale critica, dall’interno o dall’esterno della nostra comunità psicoanalitica.

Su tali critiche, che sembrano piuttosto pesanti accuse, vorrei comunque prendere posizione:
Per quanto riguarda la “scarsa scientificità” dell’Istituto freudiano: da anni, nelle sedi dove insegno come docente dell’IF, sia durante le lezioni del quarto anno, sia leggendo le tesi degli allievi, osservo un livello crescente e molto alto di gran parte dei partecipanti, segno che, con gli anni, sia l’esperienza d’insegnamento, sia il coordinamento tra i docenti è stato notevolmente affinato.

Posso aggiungere che una decina di tirocinanti dell’Antenna 112, che hanno fatto una tesi sulla loro esperienza, con un taglio lacaniano, all’Università di Padova, per i quali sono stato coinvolto come correlatore, hanno ottenuto il massimo punteggio, alcuni la lode. E questo nonostante una certa diffidenza verso la psicoanalisi, tanto più se lacaniana, da parte dei loro docenti.

L’unica volta che, come docente dell’IF, insieme ai miei colleghi, mi sono trovato in difficoltà è stato durante un esame del quarto anno, quando un allievo, parlando della cura con soggetti affetti da anoressia-bulimia, ha sostenuto, appoggiandosi esplicitamente alle teorizzazioni di Recalcati, la necessità per queste persone della “figura dell’esperto”. “Uno che sa” introduce la figura dell’S2 come riferimento della cura. In quella occasione Céline Menghi fece puntualmente notare che, con tale teorizzazione, si esce dall’campo della psicoanalisi.

Sono d’accordo con Recalcati contro la monolitizzazione della psicoanalisi e per la creatività nella ricerca personale. Ma ad una condizione: che la ricerca non debordi dal quadro preciso che ci ha dato Lacan come campo della psicoanalisi, altrimenti si slitta, come nell’esempio descritto sopra, in altri discorsi, quello dell’Università per esempio.

Recalcati ci accusa di essere fuori etica psicoanalitica. Di essere slittati verso un S2, discorso che egli stesso conosce molto bene. Con le critiche che ci rivolge ponendosi all’esterno delle nostre istituzioni, SLP e Istituto freudiano, ci dimostra come sia facile, a partire dal sapere, finire sul discorso del padrone.


Marco Focchi

La Scuola di Lacan, nel ’64, si è costituita come antidoto alla cristallizzazione gerarchica, alla cooptazione, al funzionamento regolato dal significante padrone.

Il significante padrone che, nella nostra epoca antiautoritaria, è a priori il bersaglio naturale di ogni vituperio, non è tuttavia un fatto meramente arbitrario: S1 unifica, stabilizza, permette di stratificare, consente il perpetrarsi di una tradizione, accoglie e fa convivere nel proprio seno gruppi diversi tra loro. Nell’IPA il kleinismo ha potuto convivere istituzionalmente con la psicologia dell’io grazie alla gabbia burocratica degli standard che funzionavano come S1.

Se sfiliamo S1 tutte le forze centrifughe si scatenano e la comunità entra in un vortice autodistruttivo. Non si può togliere S1 e lasciare semplicemente il vuoto.

Lacan non ha fatto così, in effetti, perché togliendo S1 ha costituito la propria Scuola intorno a un elemento agalmatico in grado di produrre traslazione. La Scuola di Lacan è stata, da sempre, la Scuola di una causa, la Scuola formatasi avendo nella propria composizione un ingrediente eterogeneo, un oggetto causa con il quale ciascuno potesse avere un rapporto singolare.

Le Istituzioni si reggono sul fatto che in esse ciascuno deve avere un proprio posto, un posto che si acquisisce per carriera, per anzianità, per particolari meriti, e che è definito entro precise coordinate: ciascuno ha il proprio posto e ciascuno deve saper stare al proprio posto. Questo ha un lato confortevole: si sa dove si è, e si sa chi si è, ci si riconosce.

In una Scuola nel senso di Lacan nessuno, invece, ha un proprio posto nello stesso modo: ci sono membri, ci sono presidenti, ci sono segretari, ci sono consiglieri, ma in questo rutilante gioco di parvenze sappiamo che quel che muove davvero le cose è la forza della traslazione, che nessuno può detenere come fosse un titolo nobiliare acquisito.

La Scuola sta insieme non perché ci sono dei posti da occupare o da assegnare, e se si riesce a vederla solo come un apparato burocratico, gerarchico e verticale, è perché si ha davanti agli occhi il velo di un pregiudizio difficile da dissipare, è perché si è paralizzati dall’incapacità di trovare una propria via senza seguire le quadrettature più tradizionaliste. In realtà possiamo piuttosto sostenere che la Scuola sta insieme perché, per dirla in modo aulico, c’è una “benigna volontade in che si liqua / sempre l’amor che drittamente spira” (Dante, Paradiso, canto XV, 1,2). Se questa volontà è sentita come la voce grossa del padrone, il fatto è allora che si è persa di vista la causa che muove e orienta il desiderio.
Possiamo esprimerlo in un’immagine immediata: l’Istituzione tradizionale è come i matrimoni di una volta, tenuti insieme dalla legge e dall’economia, oppure tenuti insieme dall’immagine un po’ Mulino Bianco della casa felice con moglie e bambini teneramente sopiti; la Scuola di Lacan invece è come i matrimoni moderni, tenuti insieme dall’amore e dal desiderio, e quindi decisamente più instabili.
Per questo ogni tanto siamo stati costretti a sottoporre a verifica la validità del nostro legame: è successo nell’‘89-‘90, al tempo di “Acier l’ouvert”, ed è successo ancora nel ‘98-‘99.

La Dichiarazione della Scuola Una nasce da queste esperienze, e sancisce l’idea, più volte menzionata nel dibattito preparatorio, di una Scuola che nella diversità di lingue, di tradizioni culturali e di dislocazione geografica su cui si estende, sia Una perché contrasta la tendenza che porta le relazioni alla dispersione, all’incompatibilità, allo sgretolamento, e ne mina la tenuta.

Credo che ciò faccia parte in modo costitutivo di quel che è una Scuola nel senso lacaniano del termine. Possiamo essere elastici, flessibili, avere il massimo spirito d’adattamento, come stiamo dimostrando nei nostri progetti di psicoanalisi applicata, ma ci sono dei punti fermi che fanno parte in modo essenziale della nostra esperienza.

Il principio della Scuola Una è uno di questi punti fermi, e consiste nel costruire il nostro spazio comune in modo che non dia luogo a correnti, in modo che non si solidifichi in gruppi.

Ripensiamo alla storia del Campo freudiano in Italia, che è stata poi la stessa in tutto il mondo quando si è trattato di dar vita alle Scuole che adesso si riuniscono nell’AMP. All’inizio c’erano dei gruppi che si riferivano all’insegnamento di Lacan. Si trattava di gruppi piccoli o meno piccoli dove si svolgevano delle analisi, che avevano delle attività d’insegnamento, delle attività pubbliche, delle pubblicazioni. Non c’era ancora la legge Ossicini, quindi non si poneva il problema di un riconoscimento legale di questi insegnamenti. C’era una sorta di principio del libero mercato: i più intraprendenti riuscivano ad avere uno spazio pubblico maggiore, altri erano più chiusi o più discreti.

Il Campo freudiano è intervenuto inizialmente riconoscendo questi gruppi, che erano la realtà, la sola realtà. Li ha riconosciuti, li ha inglobati nel proprio spazio, ma non per tenere le cose così com’erano. Ha creato infatti una dinamica che andava verso la creazione di una Scuola. Quando in una situazione determinata nasceva una Scuola (è stato così in Italia ma anche in Brasile) i gruppi man mano arretravano, si scioglievano, le persone che li costituivano entravano, uno per uno, far parte delle Scuole, che erano uno spazio diverso.

Qual era la fondamentale differenza tra gruppo e Scuola? La fondamentale differenza è che i gruppi erano dei movimenti di traslazione intorno a un leader, mentre la Scuola è la Scuola, lo abbiamo detto, di una causa, con funzioni a rotazione, ed ha la vocazione di muovere la traslazione nei confronti della psicoanalisi senza congelarla in una figura che la incarni.

Questo è stato capito dalle persone, che sempre più si sono mosse verso la Scuola superando le identificazioni e le appartenenze precedenti.

In Italia il processo è giunto a compimento nel 2002, con la creazione della SLP. È il risultato di vent’anni di storia, di una storia non sempre facile per le persone che vi si sono trovate coinvolte. Nelle configurazioni che ha preso il Campo freudiano in Italia, Intercartelli, gruppi, GISEP, SISEP, e infine SLP, alcuni si sono trovati al centro e poi ai margini, poi le cose sono cambiate e chi era ai margini è stato investito di aspettative che prima non c’erano, a volte chi era al centro si è allontanato, c’è stata la fatica di superare appartenenze che si erano radicate nella propria esperienza, o la difficoltà di convivere con persone con le quali si poteva non sentire affinità, e c’erano momenti in cui ci si poteva sentire traditi, o abbandonati, o incompresi, e bastava una minima inclinazione personale al vittimismo perché questo alimentasse le più crude rivendicazioni e i più sordi rancori.

Questo momento, ritengo, ho ritenuto fino ad ora, è alle nostre spalle, e tutti abbiamo potuto respirare il diverso clima nato dopo la crisi del ’99. Nessuna situazione è tuttavia è perfetta, e vediamo le tensioni che sono nate sulla psicoanalisi applicata dal 2004 al 2006, vediamo bene la difficoltà in cui molti si sono trovati per questa ragione.

Domandiamoci però: deve essere questo, il proprio disagio in un determinato momento, il parametro su cui giudicare la Scuola? Se prendiamo la situazione 2004-2006 come schema fisso di quel che consideriamo essere la Scuola e su cui far piovere le nostre critiche, direi che assumiamo un’ottica molto riduttiva, e ci priviamo di un panorama decisamente più ampio. Comprimiamo vent’anni di storia in tre, prendiamo il nostro personale disagio e ne facciamo il metro di misura e di giudizio universale. Un’operazione così rovescia l’ordine di priorità tra posizione della causa e posizione personale, quel rovesciamento che Kennedy restituiva al proprio ordine razionale quando diceva “Non domandatevi quel che l’America fa per voi...”. Dovremmo tradurre: da che posizione si parla della Scuola? Dalla posizione in cui la si vuol promuovere o dalla posizione di vittima?

Credo che il rischio maggiore della situazione attuale sia di ritrovarsi precipitati nel momento dei gruppi. Sarebbe un cammino regressivo, che con una spallata butterebbe giù una costruzione che ha richiesto vent’anni. Non so quanto le persone che fanno parte della Scuola siano disposte a questo, e credo e spero di no.


TERZA SEQUENZA


Paola Francesconi

HCE

La mia esperienza nel Campo Freudiano è cominciata da qui, tanti anni fa, da questo acronimo che faceva emblema nei primissimi numeri della Lettre Mensuelle dell’ECF: here comes everybody.
Non ho mai visto la Scuola deflettere da questo principio, anche quando, da campo non istituzionalizzato, è diventata Istituzione. Tale era il principio della rifondazione teorica e clinica che Jacques-Alain Miller promosse dal 1981, anno del primo Forum della ECF, di cui ricordo l’atmosfera palpitante di attese, di progetti che prendevano consistenza contestualmente all’ascolto di chi, lì, enunciava un programma: pensai che, in effetti, ciascuno poteva trovare spazio, uno spazio a lui proprio, in questo campo fiorito di differenze, ma attraversato dalla condivisione di un transfert. La passione teorica e clinica vi ha sempre avuto un posto, trasformando in dibattito clinico le tentazioni di censura e di esclusione, prima grazie alla logica del significante e alla sua implicazione di un’inconsistenza dell’Altro, di un A barrato, poi grazie alla topologizzazione progressiva del Campo come non tutto: la barra era sull’Altro e non sul dire di qualcuno, di anybody.
Oggi, l’accento su HCE mi dà l’occasione per ribadire la costanza e la tenuta di tale principio, che da allora ha attraversato anche la mia esperienza di 5 anni nel Consiglio costituito alla nascita della SLP.
Ciascuno trovava il suo posto, l’entrata nel Campo Freudiano comportava cambiamenti per i soggetti: alcuni cambiavano per la funzione istituzionale, che li rendeva altri, diversi, altri cambiavano per la via della propria ricerca, acquisendo sempre più uno stile proprio. Il transfert di lavoro era questa singolare avventura che generava trasformazioni, crescita, stili diversi.
Recentemente la mia piccola esperienza in un gruppo di lavoro sulla femminilità mi conferma, una volta di più, la geometria del non tutto del Campo Freudiano, l’accoglimento che vi ha trovato ogni proposta di lavoro, in cui everybody ha dato il suo contributo nelle sedi e nel modo che ha voluto, mosso dal solo ed esclusivo entusiasmo per un progetto di ricerca.
Ho incontrato l’everybody, nella forma della contingenza, nel Consiglio SLP, nel lavoro svolto per il Comitato d’Azione della Scuola Una, nel gruppo sulla femminilità, ora confluito nel gruppo di ricerca sulla femminilità del Dipartimento di Studi Sociali dell’Istituto freudiano. HCE non relativizza l’affectio societatis, non rende più labile il contenente, e ciò che vi è ‘dentro’, ma veicola la possibilità data a ciascuno di giocare una sua partita con il sapere, oltre e in maniera supplementare a come viene giocata nell’analisi, terreno privilegiato della partita che il soggetto gioca con il suo grande Altro.

La Scuola è un’opportunità, data a tutti, di confrontarsi con il sapere, di farne uso, di prendere e mangiare evangelicamente il suo sapere, dove il contributo individuale non sta nella trovata di una nuova teoria, miraggio narcisistico, ma nell’invenzione di un’articolazione nuova di ciò che è già là, nell’intento di contribuire con la propria differenza di stile. Everybody ha preso la forma del non tutto, del “non sappiamo chi sarà il prossimo che verrà..”; il prossimo chiunque, uno per uno, vi trova espressione, basta che il suo desiderio sia deciso, che voglia fare qualcosa… everything può venire proposta. Quest’ultimo è, mi viene da dire, il registro con cui il sapere si rinnova: è il passaggio interessante che mi sembra, oggi, aggiungersi all’everybody, l’everything. La Scuola dà la parola a chiunque per dire qualsiasi cosa, principio collettivo, ma non collettivizzante, incompatibile con la censura. Proprio perché il reale espone al ‘qualsiasi cosa’, che la ripetizione non prevede. L’accento attuale sull’everything, sulle sollecitazioni che la psicoanalisi riceve per la nuova sua posizione in presa sul sociale, nel dire la sua su everything di nuovo arrivi sulla scena sociale, discende dalla particolare precarietà degli ideali, dallo zenith, come diceva JAM, dell’oggetto a, che predispone alla particolare necessità di accoglimento di ‘qualsiasi cosa’. La Scuola è, così, il luogo di un’elucubrazione di sapere sul legame sociale, su che cosa lega ciascuno, nel dire ‘qualsiasi cosa’, alla passione per la psicoanalisi. Il posto nella Scuola non viene né dato, né negato, chiunque lo voglia può costruirselo, a condizione che l’everything che vi porta sia della stoffa del desiderio di sapere.

Per concludere su un’esperienza personale, il gruppo sulla femminilità ha lavorato in questi anni apportando la sua libbra di carne al non tutto in cui ha preso posto. Ora lo stile di lavoro cambierà, implicherà più da vicino, oltre che con la scrittura, con un po’ più di essere in gioco, i soggetti che hanno deciso di impegnarvisi ed ognuno, come è sempre stato, vi troverà il suo modo.


Fabio Galimberti

Il commento del Delegato generale dell’AMP, Éric Laurent, ha fatto capire che la questione non riguarda solo l’esistenza di due istituti all’interno del Campo freudiano, ma che si profila la possibilità di un’altra scuola in Italia. In effetti, Massimo Recalcati con i suoi interventi ha poi chiarito che ha in mente un’altra idea di Scuola, perché in questa non si riconosce più.

Voglio dire perché non condivido quest’altra idea di Scuola che Massimo Recalcati propone, attraverso tre interrogativi.

Il primo: la Scuola è una comunità di eccezioni? Sì, certo, la Scuola è una comunità di eccezioni. Ma che cosa rende eccezione un soggetto? Nel rispondere si mostra la divaricazione tra discorso universitario e discorso analitico, che in Massimo Recalcati vengono confusi. Non si è un’eccezione perché si è fatto studi di eccellenza, perché si conosce l’undicesima tesi di Marx su Feuerbach o la differenza tra ontico e ontologico. Si può essere eccezioni senza saper scrivere raffinati articoli sulla psicoanalisi dell’arte o sulla società liquida di Bauman. Si può essere eccezioni anche se, dovendo definirsi sartriano o hegeliano, non si sa più che pesci pigliare. In breve, si può essere eccezioni anche solo per avere portato fino in fondo la propria esperienza di analisi.

Secondo interrogativo: la Scuola è una comunità di amici? Si spera. Massimo Recalcati scrive che l’amicizia è necessaria perché un’istituzione non sia “un tritacarne superegoico”. Ma l’amicizia la vogliamo tutti, credo. Persino Sade voleva tanta amicizia nella sua associazione. La sua aspirazione era fondare una “Società di amici”. Amici del crimine, ma pur sempre amici. A suo modo avrebbe voluto una comunità d’eccezioni, di essere sovrani, capaci di fare ciò che è disumano fare. Ma tornando alla Scuola, nessuno di noi penso abbia voluto entrare nella Scuola per farsi dei nemici. O no? Ma Massimo Recalcati inverte l’ordine logico. In una istituzione analitica non è a partire dall’amicizia che si serve il discorso analitico. È a partire dall’aver messo la psicoanalisi nel posto della causa che può esserci anche amicizia in una istituzione analitica. Dunque, in una Scuola ben venga l’amicizia, ma non nel posto della causa.

Terzo interrogativo: la Scuola è un luogo di riconoscimento? Massimo Recalcati dice che non si riconosce più nella Scuola. Ma la Scuola non è propriamente il luogo del riconoscimento, del riconoscimento tra gli analisti. La Scuola è il luogo in cui si mette innanzitutto in gioco un non riconoscimento, un non saputo, in cui ognuno è disposto a rapportarsi a qualcosa che non è noto, non è ancora realizzato. Éric Laurent nel suo commento lo ha ribadito: si tratta di “un non-sapere irriducibile che è l’inconscio stesso”. La Scuola più che il luogo del riconoscimento, è il luogo dell’inconscio.

Allora concludo. Personalmente io voglio una Scuola in cui i membri siano eccezioni, non tanto per curriculum scolastico o produzione scientifica, ma per la propria esperienza di analisi.

Voglio una Scuola in cui la politica dell’amicizia non stabilisca le condizioni di appartenenza, ma in cui il rapporto con il discorso analitico renda possibile essere amici e non nemici. Infine, voglio una Scuola in cui ci sia riconoscimento, sì, ma riconoscimento del posto che spetta all’inconscio nell’invenzione e nella trasmissione della psicoanalisi. Questa Scuola per me è la SLP.


Franco Lolli

Questo incontro rappresenta l’esito di una contrapposizione che si protrae all’interno del Campo Freudiano in Italia da ormai alcuni anni. Una contrapposizione che non ha trovato finora un luogo simbolico di elaborazione, una possibilità di dialettizzarsi, ma che, al contrario, ha assunto, in certi periodi – e questo mi pare uno dei più intensi – una tonalità immaginaria di assoluta preminenza; un clima di rivendicazione di correttezza della propria posizione e di astioso rancore diretto contro “l'altra parte” ha riempito i corridoi e le sale d’attesa, quando non addirittura gli stessi studi degli analisti. Lo sappiamo bene, lo sappiamo tutti.

C’è stata contrapposizione, dunque, scambio tra due fronti, ognuno occupato ad imputare all’altro le ragioni del Male.

Se vogliamo tentare una lettura di ciò che è accaduto e sta accadendo, direi che ci troviamo di fronte ad una situazione paradossale nella quale l’analista lacaniano, tenace assertore della necessità di favorire nel percorso analitico del proprio analizzante l’emersione di quel momento decisivo che è la rettifica soggettiva (della propria implicazione in ciò di cui si lamenta) all'interno del gioco istituzionale e delle dinamiche gruppali che ne derivano, ha ceduto al richiamo delizioso della posizione dell’anima bella, di colui, cioè, che è preso dal godimento irresistibile di indugiare in ciò che più lo fa soffrire, dichiarando la propria innocenza e la propria ingenuità.

Credo che se un’analisi politica dei recenti avvenimenti è possibile, lo è nella misura in cui ogni parte si renda disponibile a svolgere un’operazione di autocritica, di messa in questione del proprio funzionamento individuale e di gruppo.

Il tempo dell’anima bella è finito. L’unica verità che si può dire in questo momento – in un momento in cui ancora una storicizzazione degli eventi non si è compiuta e ci troviamo tutti troppo coinvolti in ciò che sta succedendo – può riguardare, a mio avviso, esclusivamente l’individuazione della propria responsabilità e la sua conseguente assunzione soggettiva.

Non mi interessa aprire o entrare in una vertenza in cui i disputanti rivendicano la proprietà esclusiva della verità. Nel tempo in cui siamo, non ci è possibile riconoscere il valore di ciò che l’uno afferma a proposito dell’altro, in quanto si è immersi in questioni personali, transferali e di potere che impediscono di avvicinare il significato autentico delle esperienze vissute; in ciò che si afferma a proposito dell’altro, in altre parole, ci sono frammenti di verità che necessitano, tuttavia, una sedimentazione storica e di un distacco emotivo perché la verità possa emergere come tale.

L’insofferenza, l’intolleranza, il pregiudizio, l’uso chirurgico delle parole affinate per demolire e ferire, l’aggressività sublimata in falsa apertura e disponibilità al dialogo, tutto ciò allontana la possibilità del raggiungimento di una seppur minima verità.

Torno allora al punto che più mi interessa e che, qualunque sia l’esito di questa Conversazione, ritengo per me fondamentale affrontare.

Si, è vero: Jonas non è “senza colpe”. Jonas ha delle responsabilità in ciò che è successo.

Jonas – e come fondatore me ne assumo tutto il carico – ha una grande responsabilità. La sua partenza, il suo primo avvio, il suo percorso iniziale si è compiuto sull’onda di un entusiasmo che gli stessi fondatori non hanno saputo controllare. Un clima di euforia nel progettare una istituzione interamente ispirata a principi della psicoanalisi, pensata in sinergia con le potenzialità della SLP e del CF, ci ha travolto rendendoci in alcune occasioni poco attenti ad alcuni fenomeni che andavano via via manifestandosi al nostro interno.

È così, allora, che l’atmosfera di entusiasmo nel quale ci sentivamo immersi non ci ha permesso di prendere atto immediatamente che alcune persone che chiedevano di entrare a far parte della nostra associazione lo facevano pensando di rivolgersi ad una sorta di agenzia di collocamento per psicologi disoccupati. Abbiamo dunque accolto persone che, sebbene tutte all’interno di un percorso di formazione analitica, hanno nel tempo svelato la loro intenzione iniziale di scarso contenuto etico.

Così come non siamo stati attenti a valutare e ad intervenire su certe “accelerazioni” professionali che si producevano – nostro malgrado – in alcuni dei nostri associati più giovani (anche se mai ci siamo permessi di autorizzare nessuno ad una pratica analitica).

Il momento di fondazione di Jonas è stato, in altri termini, un momento in cui la concentrazione delle energie in un processo di creazione così importante per noi, ha a volte agito a discapito di un’attenzione rigorosa su quanto nel frattempo si determinava in alcuni ambiti del nostro lavoro. Questo ha prodotto delle prevedibili conseguenze:

Da un lato, si è verificata una emorragia interna di associati che, delusi dalla mancata realizzazione del loro desiderio di lavorare – che evidentemente avevano pensato di soddisfare in Jonas – hanno lasciato Jonas con sentimenti più o meno ostili.

Dall’altro, abbiamo iniziato a ricevere messaggi di vario tipo da parte di colleghi della SLP – purtroppo messaggi di corridoio, ma non per questo meno chiari – che evidenziavano questo difetto nella fondazione, questo che potremmo chiamare il “peccato originale” di Jonas. Anche se non condivido la modalità in cui ci sono arrivate, devo ammettere che quelle critiche erano giuste. Se ci avessero aiutato a capirle, forse oggi sarebbe tutta un’altra storia. Ma il fatto è che noi non siamo stati in grado di praticare, in questo momento fondativo, una giusta autocritica.

Questa è la nostra responsabilità.

Il non averla valutata per tempo non ci ha consentito di reagire in maniera costruttiva agli attacchi che ci venivano mossi. Del resto, a complicare le cose sin da subito, le critiche a noi indirizzate hanno cominciato a lievitare fino a coinvolgere aspetti della nostra associazione non più collegati al peccato originale.

Intendo dire che, da un certo punto in poi, ciò che ci veniva contestato non concerneva più questa colpevole “impulsività” legata alla nascita tanto attesa di una istituzione più conforme al nostro desiderio, ma si dirigeva su questioni che ci lasciavano letteralmente tramortiti.

Sono le questioni che il dibattito via e-mail ha sollevato: l’assenza di transfert verso la SLP, l’autoreferenzialità dell’associazione, l’aggressività contro l’IF, il narcisismo di Recalcati, l’infatuazione immaginaria degli associati Jonas verso il capo, l’assenza totale di etica, il boicottaggio delle iniziative del CF, e così via.

Non sento il bisogno di rispondere a chi ha fatto queste critiche. Sono convinto che, in situazioni come queste, qualunque cosa venga detta non risulta capace di scalfire il pregiudizio cristallizzato.

E allora preferisco evitare di precipitare nella pratica poco dignitosa di lanciarsi rabbiosamente il peggio addosso. E non per calcolo politico. I colleghi che mi conoscono lo sanno bene; amo parlare a viso aperto, in faccia. Detesto parlare “tra le righe” né mi piace, fuori dal mio studio, leggere “fra le righe”.

Dunque, mi limito a rigettare ogni altra accusa che mi è stata mossa, anzi che ci è stata mossa. Mi limito a dire che su queste accuse non mi sento chiamato in causa.

Posso farmi carico delle responsabilità che ho spiegato prima, ma per quanto mi riguarda la mia responsabilità si ferma qui.

Il mio transfert di allora verso la SLP, l’IF e l’AMP, la mia posizione soggettiva all’interno del CF, la mia capacità di smarcarmi da dinamiche di infatuazione immaginaria, il mio atteggiamento rispettoso e responsabile nei confronti degli allievi dell’IF (appartenenti o no a Jonas), il mio impegno nel sostenere – nei limiti delle mie possibilità – la causa analitica, tutto questo non è questione di cui devo giustificarmi in alcun modo.

Se tutto ciò è messo in discussione in questo luogo – come il dibattito, mi sembra, dimostra in maniera incontrovertibile – allora questo non è più il mio luogo. E forse devo prenderne atto.


Chiara Mangiarotti

La Conversazione di oggi mi pone una domanda che si è formata in me a partire dal momento iniziale della convocazione di Jacques-Alain Miller attraverso i momenti che elenco di seguito brevemente.

1. Nel suo primo comunicato Jacques-Alain Miller ci invita ad una Conversazione per esplicitare dialetticamente “le contraddizioni che ingombrano l’avanzata del Campo freudiano in Italia”. Invita i fondatori del nuovo Istituto ad esprimere “le loro ragioni e le loro intenzioni, come pure le loro critiche relative alla SLP e all’Istituto freudiano e i responsabili di queste due istituzioni a esprimersi persino in tutta libertà”.

2. Un successivo comunicato di Marco Focchi precisa il carattere etico e scientifico di queste critiche e invita Massimo Recalcati a renderle pubbliche in preparazione alla Conversazione.

3. Il Delegato generale Éric Laurent ci comunica l’annuncio che sei colleghi italiani, alcuni dei quali sono membri della SLP,dopo aver ottenuto il riconoscimento ufficiale di un Istituto di psicoanalisi, hanno deciso di tagliare ogni rapporto con la SLP, domandano di rimanere nell’AMP e “hanno in mente un modo di legame associativo specifico per loro”. Laurent ci ricorda che la Scuola trova il fondamento della sua unità nell’elaborazione dell’esperienza analitica che si trasmette con la passe.

La Scuola Una è formata da membri di diverse scuole che condividono una stessa causa. Ne consegue che l’ipotesi che tale domanda implica mette in questione il concetto stesso di Scuola in quanto due associazioni analitiche nello stesso paese porterebbero ad ammettere due diversi dispositivi e concezioni della passe.

4. Jacques-Alain Miller, in Scambi n. 2, ci chiarisce che il senso di una Conversazione consiste nel “trattamento dialettico delle opinioni” che in una comunità tendono a organizzarsi in contraddizioni. “Vi sono due trattamenti possibili di tali contraddizioni: acuirle sino a che diventino contrapposte” con il risultato di una separazione o di una esclusione di individui oppure “limarle sino a che risultino compatibili e armoniose (Leibniz) o che si sopprimano e si superino per Aufhebung (Hegel)”. Questo secondo trattamento anima la pratica trasformativa della Conversazione.

5. Recalcati, rispondendo all’invito di Focchi, esplicita le sue critiche. Non entro nel merito delle “alterazioni etiche” di cui si sarebbero macchiati i “vertici” della SLP e dell’Istituto freudiano, cui diversi colleghi direttamente interessati hanno già molto pertinentemente risposto.

Voglio solo ricordare che, dell’etica della SLP, testimoniano le due recenti nomine di AE italiani.

Per quanto riguarda le critiche scientifiche, in quanto membro della SLP e docente dell’Istituto freudiano le ritengo offensive per una comunità di lavoro che è stata protagonista di uno sforzo collettivo per l’elaborazione di una didattica caratterizzata dallo stile singolare di ognuno e insieme dall’esigenza di chiarezza e di logificazione: proprio le “tesine” degli allievi citate ne sono una testimonianza.

Ritengo che tali critiche non siano costruttive in quanto rivolte fuori tempo. Come altri colleghi, tra cui Céline Menghi hanno sottolineato, sono critiche esplicitate dopo il conseguimento di atti: dimissioni dall’Istituto freudiano, fondazione di un altro Istituto, decisione di escludersi dalla SLP, domanda di rimanere nell’AMP. Ora gli atti sono una cosa diversa dalle opinioni. Per questo mi domando come ad essi si possa applicare il trattamento di “limatura” o di “Aufhebung” auspicabile in una Conversazione.

Con questo interrogativo mi presento alla Conversazione fiduciosa nella convocazione di Jacques-Alain Miller, che ringrazio, per trovare una risposta e auspico un futuro in cui il tempo che dedichiamo all’impegno per la causa analitica possa trovare occasioni più gaie di Conversazione.


Maurizio Mazzotti

La coerenza di una politica

Nella parte finale della mia relazione all’ultima Assemblea della SLP del maggio scorso a Bologna dicevo che c’erano alcune cose non fatte di cui mi rammaricavo. (cito il passo del mio rapporto): “Una tra tutte l’organizzazione di una Conversazione clinica come quelle che si svolsero con la coordinazione di Jacques-Alain Miller prima a Roma e poi a Bologna, oramai sei anni fa. Esse furono un momento fecondo di lavoro e di aggregazione formativa attorno al reale della nostra esperienza di psicoanalisti. Trasmisero uno stile, credo sia assolutamente necessario riprenderne il filo”.(1)

È fine ottobre, sono passati appena quattro mesi e siamo qui, alla prima di una serie di Conversazioni con Jacques-Alain Miller, almeno due a rispettare la lettera del suo comunicato. Sorpresa oggi per questa convocazione, piccolo presentimento allora? Contingenza o ritorno del rimosso, prendiamo atto con soddisfazione che il movimento della Conversazione è rimesso in moto.

Non ci troviamo, oggi, nel quadro della clinica, stricto sensu. Oggi qualcosa avviene all’insegna dell’avanzata del Campo freudiano in Italia. Personalmente mi aspetto che questa Conversazione contribuisca a chiarire i punti salienti di questa avanzata.

Sappiamo, per esempio, che dobbiamo avanzare nel sociale, lo abbiamo detto da tempo, è una necessità, lo rivediamo oggi di fronte a difficoltà e pericoli crescenti per il discorso analitico e Jacques-Alain Miller proprio qualche giorno fa lo ha ribadito con il suo editoriale sulla “Campagna depressione” (2) messa in atto dalle stesse forze ostili di sempre che mirano a cancellare la pratica analitica dalle pratiche terapeutiche capaci di far fronte alla marea montante della depressione nel sociale.

Questo allarme lanciato da Jacques-Alain Miller sta a dimostrare una volta di più che, freudianamente, la psicoanalisi non avanza diffondendosi come Weltanschauung, come visione del mondo. Siamo radicali, o avanza con la sua clinica, con la sua pratica o rimarrà a far parte di quelle visioni, di quei saperi rispetto a cui lo psicoanalista, come dice Karl Reinhardt a proposito del sapiente che Platone avrebbe voluto risvegliare attraverso la forma vivente dei suoi dialoghi, “resta colui che riesuma le ossa regali”. (3). Per la psicoanalisi avanzare con il reale della sua clinica è la possibilità stessa che il suo discorso non sia solo del sembiante, mera partecipazione di forma all’era del vuoto, al peggio impostura.

Ovunque nel Campo freudiano l’avanzata della psicoanalisi nel sociale coincide con la politica di apertura dei programmi di psicoanalisi applicata, rispetto a cui anche la compagine istituzionale del Campo freudiano in Italia, come dimostra anche il pomeriggio di ieri dedicato alla presentazione del Cecli di Roma e Milano, entra ora in una fase produttiva, istituente.

Credo si possa essere d’accordo nel ritenere che l’apertura di questa politica presupponga una certa solidità della nostra clinica, ed è per questo che rimango convinto, oggi come lo ero ieri, che alla pluralità delle iniziative individuali in questo terreno, che ci è sempre stata riconosciuta dai colleghi non italiani, sia da privilegiare il quadro di riferimento, il più esplicito possibile ma soprattutto effettivo all’istituzione psicoanalitica che impegna e garantisce la formazione. Su questo ritengo di esser stato coerente anche nell’esercizio della funzione che mi ha occupato per un lungo tempo: nel ritenere che 1) la clinica acquisisce solidità solo all’interno della Scuola come perno del transfert di lavoro, 2) la clinica non è di qualcuno, è condivisa, è il risultato di vari passaggi alcuni dei quali implicano in modo sostanziale un’ampia comunità che discute, verifica ed elabora, 3) essere soli con la propria clinica è una delle maggiori espressioni dell’infatuazione psicoanalitica o (cito Jacques-Alain Miller) “delle moine dello psicoanalista insembiantizzato”. (4)

L’istanza direttiva della Scuola che ho rappresentato in questi anni si è impegnata a far avanzare una politica della Scuola soggetto. La SLP è riuscita a creare al suo interno le condizioni ‘ambientali’, come si usa dire in un linguaggio che non è il nostro, per esprimere il risultato maggiore di una scuola di psicoanalisi lacaniana: la nomina di AE: che ci sia l’analizzato, il risultato della psicoanalisi pura e che esso desideri portarne testimonianza nella comunità, mettersene al lavoro. Questo è un risultato, perlomeno è quel che credo io, che non si produce facilmente se sono le turbolenze che governano l’associazione, se viene meno la fiducia dell’insieme, se si precarizza il transfert sulla Scuola soggetto.

Le turbolenze, ci sono state, certo. Presenti fin dall’inizio. Per esempio, in seno al Consiglio si traducevano in appassionate, a momenti litigiose, discussioni. Erano segno di vitalità o di conflitti che resistevano alla loro sublimazione? Ciò che risponde a questo interrogativo, per noi psicoanalisti, è l’atto, che ha deciso e decide della sua politica, meglio se conduce a una chiarificazione dei termini che contribuiscono ad articolare l’insieme di riferimento. Un esempio per noi, in questi ultimi anni, ne è stata la chiarificazione dei poteri tra Istituto freudiano e SLP, che ha migliorato non poco il funzionamento di questo binario, incidendo favorevolmente sullo sviluppo del transfert di lavoro.

Le ultime Assemblee dei membri della SLP hanno messo in evidenza che si era prodotta la coerenza di una politica della Scuola soggetto e che questo andava nella direzione di un avanzamento del Campo freudiano in Italia.

(1) M. Mazzotti, “Rapporto del Presidente all’Assemblea ordinaria della SLP”, svoltasi a Bologna il 26 maggio 2007.
(2) J.-A. Miller, “Du bon usage de la «Campagne dépression» ”, in ECF-débats, 10 ottobre 2007.
(3) K. Reinhardt, Les mythes de Platon, Gallimard, Paris, 2007, p. 22.
(4) J.-A. Miller, “Risposte a La lettre en ligne”, SLP-Corriere, 11.10.2007.


Commento di Jacques Alain Miller

Ora farò un breve commento. Se qualcuno, però, desidera intervenire può farlo, ma avremo comunque il pomeriggio. Le altre due sequenze le faremo dopo, ora c’è un momento molto importante, quello del pranzo. Ora si tratta di andare a mangiare, di discutere un poco con i colleghi, di soppesare quello che è successo. È durante questo intervallo che la combustione di quello che è stato detto avrà modo di realizzarsi, durante il pranzo e poi ritorniamo qui.

Allora, riguardo all’intervento di Domenico Cosenza: prima c’è tutto un umorismo allusivo quando parla della “sola voce di Recalcati ad animare l’avvenire di questo istituto che si vuole programmaticamente antitotalitario”. È divertente perché fa intendere che Recalcati è antitotalitario e che, però, è l’unico che parla a difesa del proprio Istituto. Queste sono un po’ delle frecciatine tra amici. Nessuno è totalitario, il totalitarismo è una cosa molto seria; questa, invece, è piuttosto una commedia. È un po’ come nel teatro di Brecht, in cui gli attori alzano un cartello con la scritta “totalitarismo”. Quindi, per come sono le cose, ogni personaggio ha un cartello “totalitarismo” ed un cartello “liberalismo” tra le sue mani. Possiamo vederlo un po’ come il balletto di Pechino: ci sono quelli con il cartello con la scritta “totalitarismo” e quelli con la scritta “liberalismo”. È normale, ci vuole questo nel discorso, ci sono sempre delle formule stereotipate nel discorso. È questo che talvolta dà la sensazione che sia già scritto. Ci si accorge bene che ci sono degli stereotipi che funzionano ma, per l’appunto, all’interno di questi stereotipi, dietro questi stereotipi bisogna andare a cercare l’agalma, la cosa veramente nuova e significativa e ogni volta c’è qualcosa di questo tipo.

Quindi, riguardo all’intervento di Cosenza, io credo che vada nel senso del gruppo Recalcati-Licitra. È un gruppo trasversale, perché lui dice: “occorre fare a mio avviso di questa congiuntura critica l’occasione per un rilancio vero ed ulteriore del Campo Freudiano in Italia”. E aggiunge, in modo molto preciso, occorre “ripensare e rilanciare […] il rapporto della SLP con la società italiana e con le sue istituzioni, cliniche, culturali, universitarie, politiche e amministrative” – manca religiose – “in modo da poter costituire nei prossimi anni una presenza riconoscibile ed autorevole, capace di offrire all’Altro sociale una interlocuzione e dei luoghi di risposta orientati dalla psicoanalisi, di cui esso possa arrivare a riconoscere, con il proprio linguaggio, l’efficacia”. Bene, questo è un programma formidabile di “rilancio”.

È un programma formidabile di “un nuovo quadro istituzionale” necessario per fare questo ed è il programma della nuova identificazione evidenziata da Licitra. E fa anche capire perché è una cosa che non siamo solo obbligati a fare, ma che è vitale per noi, per il Campo Freudiano, e per la seguente ragione: ora noi siamo già troppo numerosi, e anche troppo forti, per poter continuare a vivere nell’ombra della società italiana. Siamo troppo numerosi per comportarci come delle talpe. Perché se noi continuiamo a rimanere nell’ombra, come facciamo adesso, all’interno di maneggi vari, con voci di corridoio, tutto questo produrrà dei miasmi nella nostra atmosfera. Bisogna aprire le finestre nel Campo Freudiano. E questo mi fa comprendere delle cose che Lacan ha detto e che mi sembravano, in fondo, un po’ discutibili. Si trovano negli Scritti di Lacan, e anche negli Altri Scritti di Lacan. Ci sono dei paragrafi in cui Lacan invita i poteri pubblici a venire a controllare la psicoanalisi. Dice, appunto, che gli psicoanalisti vogliono essere extraterritoriali. Avrebbero bisogno, invece, – dice Lacan – che i poteri pubblici e gli universitari venissero a richiedere qualcosa dagli psicoanalisti.

Ho ripensato a questo quando stavamo combattendo contro la legge Accoyer e noi volevamo, ovviamente, respingere questo tipo di regolamentazione, soprattutto perchè tale regolamentazione era la definizione stessa delle psicoterapie. E noi questo lo abbiamo impedito, completamente. Però, noi resistiamo anche rispetto alla regolamentazione del titolo. E, in fondo, io mi dicevo che Lacan era un idealista che vedeva, quindi, i rappresentanti del sapere universitario e del potere politico che venivano a porre gentilmente delle domande agli psicoanalisti, per aiutarli a elevarsi nel sapere. Nella realtà concreta, invece, noi abbiamo a che fare con delle persone che vogliono richiamarci all’ordine. Ciò non toglie che Lacan ha ragione, che gli psicoanalisti crepano, se non lasciano entrare la luce laddove stanno. Perché è vero che gli analisti manipolano il transfert, certo, è il loro mestiere e, quindi, naturalmente ne fanno abuso. È normale. Ed è per questo che è necessario che ci siano dei limiti, ma non possiamo mettere dei limiti con dei carabinieri psicoanalitici. Io non posso fare un ufficio reclami in cui mi si viene a dire, o mi si scrive, che un tale influenza troppo un paziente o l’altro. Rispetto a questo c’è una soluzione: da un lato, le Conversazioni e, dall’altro, anche noi che entriamo in contatto con la società in un modo completamente diverso.

Ebbene, da quindici giorni a questa parte, noi in Francia abbiamo capito che non abbiamo neppure più nessuna scelta. Perché sta cominciando la prima campagna per depistare la depressione – sono cose che esistono in Inghilterra da anni e sono cose che esistono negli Stati Uniti dal 1991. Mai fino ad ora, in Francia, qualcuno aveva pensato di fare questo. Da poco, quindi, hanno prodotto una guida contro la depressione, da diffondere in un milione di esemplari, con delle vignette, che copia la guida fatta negli Stati Uniti dalla Mental Health Association. Dico solo questo: a chi ci si rivolge – dice lo stato francese – quando si è depressi? E lo stato dice: al medico di base, allo psichiatra. Questi due specialisti possono dare dei farmaci. Dice anche che ci si può rivolgere a degli psicologi che, però, non possono dare dei farmaci, ma che possono fare una psicoterapia, con un questionario e anche lo psichiatra può fare questo. E poi basta, non viene detto nient’altro. Non si dice che gli psicoanalisti sono delle canaglie, non si dice neanche che gli psicoterapeuti relazionali sono incapaci. Non si dice niente. Quindi ci saranno un milione di esemplari. La guida è già su Internet, se la volete vedere, potete andare sul sito http://www.info-depression.fr/ e potete fare questa lettura.

Loro, comunque, ci hanno informato, hanno informato l’École de la Cause Freudienne alla fine del mese di settembre. Il direttore aggiunto dell’Istituto che ha fatto questo ha spiegato che sarebbe andato a parlare con le persone che contano; quindi ha telefonato a Lilia Mahjoub, Presidente della École della Cause Freudienne, che è una delle due associazioni francesi di psicoanalisi a cui lo stato francese ha riconosciuto l’utilità pubblica. Questo direttore aggiunto lo conosceva già perché, per molto tempo, si era occupato al Ministero di tutta la faccenda Accoyer. Quindi, lei gli ha dato appuntamento da lei, nel suo studio d’analista. Il direttore aggiunto è arrivato già con le bozze della guida sotto il braccio, per fargliele vedere, ma non poteva lasciargliele perché è il Ministro colei che le avrebbe presentate e, quindi, nessuno deve saperne nulla. E inoltre, dato che la stanno già stampando, di fatto, non si può più cambiare niente. È così che si consulta la gente che conta in Francia! Allora Lilia Mahjoub lo ha tenuto due ore nel suo studio d’analista perché, avendo previsto che c’erano cose da fare, ha spostato i pazienti e, per due ore, ha sfogliato pagina dopo pagina la guida e il direttore aggiunto era lì che aspettava e che la guardava. Alla fine lei gli ha detto: “Sappia che ci faremo sentire”. E gli ha chiesto anche perché sia andato a trovarla così tardi e lui ha detto: “Forse perché mi fa un po’ paura”.

Noi abbiamo capito di cosa si trattasse veramente solo il 9 ottobre, che è il giorno nazionale della depressione, non solo in Francia, ma anche in Italia, in Spagna, in cinque paesi europei. Anche se non lo sanno ancora in molti. E quando abbiamo capito questo, il martedì sera del 9 ottobre, ci sono volute ancora quarantotto ore per decidere di far uscire di nuovo un numero di le Nouvel Âne. Non so come abbiamo fatto, ma dal 10 ottobre ad oggi lo abbiamo concluso. È impeccabile, venti pagine, con foto a colori, sarà in stampa domani mattina e, alla fine della settimana prossima, avremo 10.000 esemplari. Ci sono circa 5.000 esemplari che sono stati già acquistati dalla Scuola e dagli istituti clinici; alle librerie in Francia all’inizio invieremo 1.000 esemplari, un esemplare per ogni deputato parlamentare francese, come regalo, poi tutte le redazioni di Francia riceveranno il giornale e anche tutti i giornalisti che contano. Stiamo facendo delle liste con i nomi dei giornalisti che contano nelle radio, nelle televisioni, nei giornali.

In fondo, quando si trattava dell’emendamento Accoyer, l’Assemblea Nazionale in Francia aveva votato all’unanimità a favore dell’emendamento Accoyer. Un mese dopo, però, lo stesso Accoyer si è tirato indietro e lui stesso ha chiesto che il senato modificasse la sua legge. In questo caso, ovviamente, si tratta di un investimento enorme, è una cosa enorme. Il 12 ottobre ho inviato una nota via internet al direttore dell’Ufficio di gabinetto del Ministero della Sanità. Era una pagina redatta in un modo molto chiaro, in cui comunicavo che i nostri risultati scientifici ci conducevano a dire che questa guida era irresponsabile e pericolosa per la popolazione francese e che, se fosse stata diffusa, il nostro dovere era quello di opporvisi. Ho detto questo con frasi come quelle che pronuncio qui ora: precise, senza sforzi di poesia, piuttosto con uno sforzo di non poesia assoluta. Lascio perdere i dettagli, ho tentato di comunicargli che noi volevamo che fermasse questa battaglia e, che se non avesse potuto interromperla, almeno che la modificasse o che la riducesse nel tempo, che la rendesse più breve. Gli ho chiesto un appuntamento con il Ministro per Lilia Mahjoub, poi tutto bene, mi ha ringraziato via mail. Non ho più sentito parlare di lui. Giovedì scorso Lilia Mahjoub mi ha telefonato dicendo che aveva l’appuntamento con il Ministro per il 22 novembre. Il problema è che la campagna va dal 29 ottobre all’11 novembre, vale a dire che non possono cambiare niente. Allora venerdì mattina ho ricominciato con l’ufficio di gabinetto del Presidente delle Repubblica.

(J.-A. Miller riceve la telefonata di Agnès Aflalo, per la stampa del giornale)

Allora venerdì ho ricominciato con un tono ancora più forte, facendo notare che il Ministro dà l’appuntamento ma che, a quanto pare, non è stata in grado di bloccare questa campagna e che, quindi, metterò subito in allerta l’ufficio di gabinetto del Presidente della Repubblica. Non ho ancora ricevuto una risposta da questo ufficio e, in seguito, dovranno scusarsi anche di averci messo così tanto tempo prima di rispondere. Ma ho già ricevuto una mail dal direttore dell’ufficio di gabinetto del Ministero della Sanità che deve avere saputo che mi stavo lamentando più in alto. Quando l’avevo visto avevo detto che non avremmo preparato dei Forum perché la questione della depressione non va bene per i Forum; farò, invece, un grande congresso scientifico sulla depressione con i maggiori uomini di scienza, sia psicoanalisti che esperti. Chiamerò Jean-Pierre Changeux, dato che sono io che ho inventato il suo “uomo neuronale”. Quindici anni fa’eravamo amici e, quindi, gli chiederò di venire. Prenderò anche i nostri professori di psicoanalisi, dei professori di psicologia, di psichiatria. E mi ha già detto, il 17 ottobre, quando l’ho visto, che forse il Ministro potrebbe anche venire a inaugurare il nostro congresso, perché si sente colpevole di non poter bloccare la campagna. Io ho detto: se questo le fa piacere, perché no? Ma ho detto anche che quello che mi interessa, per questo congresso, è avere l’anfiteatro del Ministero della Sanità, dove si tengono tutti i congressi degli altri. Bene. Venerdì pomeriggio mi ha inviato una mail in cui dice: “le confermo il mio accordo di principio per l’Anfiteatro e attendo con impazienza la sua nota di preparazione”. E, quindi, o Sarkozy riesce a bloccare questa campagna oppure, se non può bloccarla, cercherà un modo di farmi piacere.

Non bisogna dimenticare che, nel 2003, noi del Campo Freudiano, ma anche io stesso, non avevamo nessun contatto politico. Quindi siamo riusciti fare tutto questo in soli quattro anni.

Ebbene, quando mi parlano di “nuovo quadro istituzionale” o di “nuova identificazione di rilancio”, io penso a questo. Bene, ci ritroviamo dopo il pranzo, alle 15.30.


QUARTA SEQUENZA


Céline Menghi

Caro Jacques-Alain Miller,
Eccoci alla Conversazione del 28 ottobre. Ottobre, un mese che evoca altri ottobre della storia...Si tratta oggi dell'ottobre della SLP che ci vede riuniti per discutere delle “contraddizioni che ingombrano l’avanzata del Campo freudiano in Italia [e che] saranno esplicitate e trattate in senso dialettico.”

I giorni che hanno preceduto questo momento, benché sullo sfondo di una certa amarezza, sono stati un fuoco d’artificio rivelatore dell’entusiasmo di tanti di noi, Membri della SLP e della AMP, Docenti dell’Istituto freudiano, “operai”, come ha detto qualcuno, della causa analitica, operatori dei Consultori di psicoanalisi applicata e del CECLI, allievi, ex allievi, analizzanti...Tanti e – basta leggere le mail – ognuno con il suo stile, con il suo colore, con la sua singolarità, che piaccia a tutti o meno.

Non dobbiamo per forza piacerci tutti, solo perché apparteniamo alla stessa Scuola e il nostro desiderio è mosso dalla stessa Causa.

Siamo tanti, dunque, e ciascuno mosso dal punto in cui è approdato, fino a questo momento, rispetto alla propria esperienza della psicoanalisi, come analizzante e come clinico.

Tale entusiasmo è la verifica di un lavoro proficuo che dura da anni: almeno 25, per quanto riguarda la AMP, come ricordava Éric Laurent, e molti di meno, certo, per quanto riguarda la SLP, nata come emanazione della AMP all’interno della quale si lega alle altre Scuole, secondo la dinamica precisata nella “Dichiarazione della Scuola Una” adottata a Buenos Aires il 14 luglio del 2000, come ricorda Éric Laurent: “Compagni di una medesima causa [...] dichiarano di costituirsi in una Scuola Una.

Una, in senso contrario alla tendenza naturale verso l’allontanamento, la divergenza, la dispersione. Una, ma senza la noia che va assieme all’omogeneità dell’Uno, poiché plurale e non standard [...]”.

Dove conduce tale dinamica? Da un lato, ci differenzia dall’IPA, dal suo eclettismo confondente, che annacqua la psicoanalisi e rende ai suoi associati sempre più arduo, se non impossibile, affrontare alcuni aspetti della clinica contemporanea, quella dei così detti “casi gravi”.

Dall’altro, muove alla pluralità dello stile che caratterizza i membri della Scuola soggetto, una Scuola che, come Lei ha detto a Torino nel 2000 (“Appunti”, n. 78, 2000), non si sostiene sulla pura logica dell’Edipo, dove l’Uno – che non è come tutti gli altri – è un Uno superegoico e solitario, bensì su “un almeno-uno che dà testimonianza della propria differenza e che non si risparmia affinché ce ne siano altri a farlo. Il posto dell’almeno-uno è un posto di enunciazione che non comporta l’esclusività”. Ma, come scrive ADC nello stesso numero di “Appunti” riprendendo il suo intervento, “Saperlo occupare [questo posto] vuol dire in logica qualcosa che rende conto di quella perdita provocata dall'articolazione significante di cui ognuno è un effetto. Non certo per lamentarsene o per vantarsene [...] ma per testimoniare in che modo la perdita – perdita che è da situare nel nodo immaginario-simbolico-reale senza far l’economia di nessuno dei tre – è il marchio di martire all’origine della sua posizione creativa. [...] a livello di ciò che lo singolarizza come stile per trattare quel reale in gioco nella Cosa analitica e che lo convoca come analista. Stile che comporta che ognuno non è simmetrico a nessun altro ma che è unico, pur non essendo l’unico”.

Allora, questa pluralità, questa unicità che non ci fa essere l’“unico”, da un lato, ci distingue dai nostri colleghi dell’IPA, pur non impedendo contatti tra noi e loro, né occasioni di scambio: li abbiamo cercati e ora ci cercano, li abbiamo incuriositi e ora ci invitano, alcuni di loro hanno espresso l’intento di fronteggiare insieme a noi la minaccia incombente di leggi che vedranno la psicoanalisi e gli psicoanalisti ridotti a un controllo tale da rendere sempre più sottile la soglia che separa una pratica dell’inconscio dal Grande fratello.

Dall’altro, questa pluralità e unicità è tanto più feconda quanto più, tramite il dispositivo della passe, aperto a chi lo desidera, se ne può dare prova come due membri della SLP, Carmelo Licitra Rosa e Massimo Termini, hanno fatto, attraversando il guado che li ha fatti approdare in un punto che hanno illuminato illumineranno con la trasmissione della loro elaborazione.

Vorrei concludere dicendo che nel Campo freudiano, nella SLP e all’Istituto freudiano ho imparato qualcosa riguardo l’insegnamento: anche qui, si tratta di stile. Vediamo, infatti, coesistere e articolarsi stili di insegnamento e di espressione a che si sostengono sull’invenzione sintomatica, sul funzionamento, sul marchio più o meno bello o seducente di ciascuno e, ancor prima, sul percorso per arrivarci.

È così che possono coesistere coloro che hanno il dono dell’insegnamento e coloro che insegnano come se scalassero una montagna; coloro che hanno il dono della parola e coloro che balbettando – spesso i poeti balbettano –; coloro che uniscono l’intuizione clinica alla logica e coloro che arrancano con la logica – posizione piuttosto femminile – ma che si destreggiano nella clinica; coloro che attingono all’arte e alla letteratura e coloro che attingono al teatro; coloro che attingono al cinema e coloro che si districano dalle maglie della filosofia... Tanti unici, dunque, non troppo ossessionati dall’unica misura, un po’ soli rispetto all’ideale, tutti quanti esposti al buco nel sapere. Per questo non mi annoio. Grazie.


Laura Porta

La mia presenza qui oggi è la conseguenza di un lapsus: avevo inviato un’e-mail a Jacques-Alain Miller per Scambi, utilizzando come oggetto “Conversazione”. Mi sono accorta dell’errore ed ho inviato immediatamente dopo un’e-mail di rettifica. Dal momento che ieri mattina ho realizzato che il mio nominativo era stato scelto per la conversazione mi sono presa la responsabilità del mio lapsus, ed eccomi qua. Ho però modificato il mio intervento.

Ho partecipato e assistito alla nascita di Jonas, sono entrata a farvi parte subito dopo aver concluso la mia formazione presso l’Istituto freudiano. Ritengo la Scuola Lacaniana di Psicoanalisi un luogo di formazione e di scambio ancora importante per me. Sono molto addolorata nell’apprendere che molti colleghi della Scuola avanzano critiche gravi e pesanti verso l’operato dei soci Jonas.

Parlo rappresentando anche i membri milanesi di Jonas, attualmente circa venticinque, e posso affermare, in prima persona e a loro nome, che nessuno di noi è stato “sguinzagliato”, per riprendere un’espressione di Carmelo Licitra-Rosa, verso attività che ritenessimo al di sopra delle nostre capacità o possibilità. Anche perchè al guinzaglio vengono tenuti solo i cani e pochi altri animali, e mi sento di poter affermare che i soci Jonas con cui lavoro sono persone dotate di intelligenza, consapevolezza e senso di responsabilità. A dimostrazione di questo il fatto che la maggior parte di coloro che lavorano in Jonas sono allievi dell’Istituto freudiano regolarmente in corso o ex allievi. Le attività a cui abbiamo aderito e di cui ci siamo fatti promotori sono state frutto di una scelta soggettiva. È molto triste dover sottolineare questo, per noi che facciamo parte di Jonas, per noi che conosciamo il clima di assoluto rispetto e libertà di esserci o non esserci che in esso domina, ma bisogna che venga puntualizzato.

Mai e in nessun modo qualcuno di noi è stato indotto con il raggiro, la calunnia, l’intimidazione o la suggestione a compiere atti, attività o interventi per i quali non ci sentissimo pronti, all’altezza, di cui non avessimo il desiderio o il titolo professionale per attuarli. Mi rammarico invece per l’isolamento palpabile che ho percepito in Jonas, da parte dei colleghi della SLP. Di tale isolamento ho dato una piccola testimonianza in Scambi. Un isolamento di cui ho faticato in questi anni a comprendere le ragioni. Spero che oggi avremo occasione di scoprire le nostre carte, andare a fondo della verità, aprire finalmente un dialogo.


Isabella Ramaioli

Ricevo l’invito di J.-A. Miller ad intervenire nel dibattito che si è aperto in occasione della richiesta di riconoscimento dell’Istituto IRPA, fondato da M. Recalcati, all’indirizzo di membro SLP e di segretario della SLP di Milano nel biennio 2005/2007 per testimoniare dell’avanzata del campo freudiano in Italia, avanzata che ha trovato i suoi punti di forza in un concorso di sinergie fra le diverse forze entro cui si articola la SLP, l’Istituto freudiano e Campo freudiano nel suo insieme.

I due anni di Segreteria della SLP di Milano, cui faccio riferimento, sono stati caratterizzati sia da elementi di continuità con il lavoro precedentemente svolto (si veda la relazione del precedente segretario D. Cosenza) sia da aspetti di discontinuità che hanno assunto, in qualche momento, carattere di vera novità.

Lo sforzo auspicato al termine del biennio precedente circa un più forte ed incisivo raccordo con le iniziative, le tematiche e la politica tracciate dall’AMP., sino ad una attiva collaborazione con la SLP. attraverso il suo Presidente ed il Direttivo della Scuola stessa, si può dire riuscito.

La comunità milanese non solo ne ha condiviso le linee guida, ma soggettivata l’analisi, le proposizioni ed i principi, li ha poi declinati sia nelle sue iniziative concernenti il lavoro in intensione che nell’estensione.

La SLP di Milano ha avuto come sua tradizione una pratica mirata fortemente ad un transfert di lavoro fra i suoi membri, dunque in intensione, ed una pratica – più recente – rivolta all’estensione, vale a dire rivolta alla comunità sociale e culturale.

In entrambi gli ambiti il tema del Congresso dell’AMP, che si è tenuto a Roma, è stato ampiamente articolato e dibattuto (si vedano i 7 + 2 incontri tenuti sul tema del Nome del Padre, farne a meno, servirsene e sul lavoro di passe).

Un lavoro proficuo ed insieme appassionato è stato rivolto, attraverso una serie di incontri clinici, a quell’insieme di colleghi che concludendo l’Istituto freudiano orientavano il loro desiderio verso la Scuola, desiderosi di proseguire sulla strada di quella psicoanalisi che avevano conosciuto attraverso l’Istituto freudiano.

Il clima di lavoro, i dibattiti e le iniziative promosse in questo biennio dalla comunità milanese sono state effettivamente galvanizzate dall’Orientation lacanienne che si è così costituita come punto di repère a partire dal quale particolarizzare il lavoro locale.

L’“intersezione nella differenza” fra SLP e Istituto Freudiano è proseguita cioè nella buona direzione di due istanze che hanno articolato e portato avanti compiti diversi, orientate tuttavia da un medesimo desiderio: la trasmissione della psicoanalisi nella realtà contemporanea.

Lungo questa prospettiva (aperta da J.-A. Miller, proprio a Milano, dalla lettura della formula di Lacan “L’inconscio è la politica”), quella di una più incisiva presenza della psicoanalisi lacaniana sul fronte della città, si è lavorato lungo tutto l’ultimo anno. Le iniziative, i gruppi di lavoro la presentazione di testi del Campo freudiano sono stati caratterizzati da una “rinnovata alleanza” fra SLP e Istituto Freudiano tesa a rendere visibile, alle diverse istanze della città, le produzioni teorico-cliniche della Scuola lacaniana anche attraverso la presentazione dei Seminari, tradotti in italiano, di Lacan.

Attorno a questo progetto si è avviata una nuova forma di lavoro che ha legato insieme intensione ed estensione. Un nuovo modo di procedere è stato percorso facendo precedere le serate rivolte alla città da serate di lavoro in intensione fra i membri ed aderenti della SLP. Si è trattato per la comunità milanese di una sorta di sperimentazione tesa ad annodare dialetticamente interno ed esterno, una sorta cioè di strumento che ha cercato di intrecciare le esigenze di elaborazione proprie all’approfondimento dei testi, alla riflessione sui nuovi effetti prodotti dall’epoca contemporanea e l’esigenza di una presenza della comunità analitica nella città. La congiuntura politica in cui ci troviamo esige, in effetti, nuovi modi di trasmissione tanto verso l’Altro sociale che verso la Scuola.

Nuove possibilità per la SLP.

Ci vengono, come sappiamo, dal CECLI (Centro Clinico di Psicoterapia e Psicoanalisi Applicata). È questa l’azione, la funzione-pivot più sovversiva che ci apprestiamo ad attuare. In continuità con l’esperienza dei CPCT il CECLI s’inscriverà nella città, creando un nuovo ed inedito spazio di applicazione della psicoanalisi, una nuova modalità dell’azione analitica – diversa cioè dalla pratica sia privata che istituzionale – che presuppone da un lato la messa in atto del desiderio dell’analista, dall’altro un particolare transfert alla Scuola, all’esistenza cioè di una comunità analitica – in specie quella milanese – che sostenga il campo d’applicazione della psicoanalisi nella città. Milano si accinge così alla messa alla prova della psicoanalisi come bene pubblico, nell’accezione più pragmatica del termine.

Le sfide che l’epoca ci impone necessitano, dunque, e si diceva più sopra, di trovare verso l’Altro sociale azioni ben calcolate ed incisive. Anche i dibattiti pubblici saranno orientati e mirati verso luoghi e questioni più prossimi alla nostra attuale prospettiva così come all’interno della Scuola nuove forme di funzionamento potranno essere messe alla prova.

Con l’avvio del Cecli siamo in presenza di una nuova configurazione che richiede lo sforzo di un’invenzione, di un’invenzione singolare, di un funzionamento all’altezza della situazione.

Concludo sottolineando come l’annodamento fra le diverse istanze sia stato il punto di leva dell’avanzata del Campo freudiano in Italia e di quanto vi è stato di decisivo nell’articolazione del molteplice all’Uno. Ma possiamo considerare elemento del molteplice qualcosa che si costituisce come frammentazione, pezzo che si vuole staccato dalla Scuola italiana di psicoanalisi “…senza attentare al concetto stesso di Scuola?”. Questa domanda che Éric Laurent pone a conclusione del suo intervento nel dibattito in corso mi pare tocchi un punto di impossibile.


Carlo Viganò

Perché tanta sofferenza?

Dopo questi giorni pieni di messaggi vorrei interrogare un effetto di sofferenza, che la loro lettura e qualche scambio di parola hanno prodotto, credo non solo in me.

Scarto subito l’idea che essa sia legata alla forma di processo ad paersonam che il dibattito avrebbe presa. La mia prima idea si rivolge piuttosto al tema della perdita, di persone, di energie, di lavoro? Ma poi chi perde cosa? Ed è la stessa cosa per tutti? Ho scelto un titolo che assomiglia a quello di Roudinesco nel Libro nero:‘Perché tanto odio’? Si tratta forse di questo? Non mi pare, anche perché l’affectio societatis non è amor fraterno e tanto meno per un capo e, inoltre, non ho sentito odio in nessun intervento e non ne provo io stesso, il mio sentimento è piuttosto quello legato all’impossibilità di trovare le parole per dire un’evidenza.

Proporrei di verificare l’ipotesi che si tratti del timore di perdere un’identità, o di vederla impoverita. Se fosse così, proviamo a vedere se si tratti della stessa per tutti: l’identità lacaniana della psicoanalisi (già la formula suona un po’ buffa). In effetti Lacan ha messo il turbo alla scoperta freudiana dell’inconscio, come ha ricordato nel suo Corso Miller, esso consiste nella sua risposta sintomatica al ‘trauma Freud’: il Reale.

Certamente nel nostro dibattito è messo in gioco un reale, quello della formazione dell’analista e quindi non si tratta di identità, ma di orientamento scientifico – che Freud ha elevato ad etica. Possiamo allora bandire tristezza e malinconia, anche se con il dovuto tatto. Il reale freudiano è perdita (Austossung), se sono triste può solo essere per il fatto di non aver trovato le vie per attuare quel distacco, di aver effettuata solo un’imbarazzante espettorazione. Vediamo cosa vuol dire perdere l’orientamento o confonderne le tracce o, ancor peggio, credere di contendersene il segreto.
Lo stile che è in gioco è quello dell’S1, che Lacan ci dice dover essere rinnovato da noi. Discutiamo dei modi del molteplice, ma non vediamo (come il ‘re nudo’) che lo facciamo solo perché viene messo in gioco l’uno, il fondamento di questo modo. E questo, ora che l’Altro non esiste, è il frutto di una scelta di ciascuno, è il modo di “servirsi del Nome-del-Padre”, lo stile con cui la Scuola, giorno per giorno, col suo transfert di lavoro crea il vuoto in cui l’uno consiste.

Semplifico: la formazione dell’analista è un po’ come quella del judo: ci si deve esercitare ad usare la forza dell’avversario, per vincerlo (il godimento del sintomo, per modificarlo), a cedere la naturalità del proprio oggetto, per arrivare ad un desiderio ‘dell’analista’, dove cioè il paziente possa scorgere il posto per il proprio oggetto. È una disciplina lunga ed è la via di un’etica scientifica, di destituzione soggettiva fatta di successive cessioni. Facciamo spesso l’esempio di Freud che abbandona l’elettroterapia, poi l’ipnosi, poi la suggestione, poi il comando e l’attenzione, per la libera associazione. Gli alleggerimenti continuano con Lacan, anzi si radicalizzano: dalla neutralità si passa appunto al desiderio dell’analista, in fondo anche la neutralità era un sembiante.

Laurent ce lo ricorda: quella dell’analista è una formazione che va da Sq (significante qualunque) e non si ferma a St (significante del transfert), ma va fino a S(A), il significante della mancanza in atto e questo è un percorso non solo lungo, ma che richiede la Scuola come operatore del passaggio da St a S(A). A volte la forza di un analista, del transfert che sa suscitare, è tale da favorire l’arresto su un S1 a lui connesso. In Italia abbiamo già sofferto per un caso simile, al tempo in cui Verdiglione produsse l’effetto di fornire un S1 che rendeva molto difficile agli analizzanti lasciarlo per spostare il transfert sul lavoro di scuola (con l’ostacolarne la costituzione) e quindi sul desiderio dell’analista, quello che dà una soluzione particolare, creativa, all’incommensurabile di S(A). La forza di Verdiglione era l’opposto di quella oggi in gioco, era l’oscurità, l’esoterismo, a cui tendeva la cultura dell’epoca. Oggi è invece la chiarezza, il fascino della comprensione essoterica.

Ieri era la psicoanalisi pura e oggi è quella applicata, dove si rischia di saltare il tempo di elaborazione della scuola. Il termine ‘scuola’ non deve trarre in inganno, l’ostacolo non è relativo alla dottrina, ma è quello di una formazione che salta il tempo dell’etica scientifica, del formare il soggetto della scienza (che, dopo Lacan, può essere solo lo psicoanalista). È un paradosso: il miglior insegnante di psicoanalisi, il più chiaro o il più convincente può diventare l’ostacolo maggiore nella formazione dell’analista. Ovvio che, come in tutti i paradossi, non vale l’inverso.

Quando il giovane ‘neofita’ comincia ad autorizzarsi nella clinica, tende sempre a mettere in gioco l’S1 del maestro, ma ben presto si rende conto che non basta ed è qui che sorge l’alternativa: o c’è un luogo in cui operare lo svuotamento di questo significante di padronanza, per osare un desiderio da analista oppure, in mancanza di questo strumento (la scuola appunto) il neofita si fabbrica il suo S1, dichiara la propria competenza e saluta tutti, con più o meno gratitudine.

Questo destino, il proliferare di tanti padroncini, è, almeno per me, la fonte della sofferenza: perdita per la psicoanalisi e pietà umana per lo scacco personale di tanti (che sono generalmente i migliori). Non allevia per nulla questo dolore il sapere che il desiderio, quando il simbolico della scuola è precluso, fa ritorno nel reale di una galassia di maestri del pensiero, dei quali la politica della psicoanalisi non ha bisogno. Così perlomeno insegna la nostra storia degli ultimi 30 anni (33, come ci ricorda Turolla).

Questa riflessione mi porta ad una conseguenza applicativa importante, quella di un’attenzione critica non tanto per l’IRPA, ma per la realtà di Jonas, che è un’iniziativa di psicoanalisi applicata sorta in riferimento alla SLP e all’AMP. Mi si lasci dire che in questo senso, come ho ricordato in un intervento precedente, sono contento di avere aderito all’invito di supervisione del gruppo di Como e dell’esperienza di Cartello svolta con alcuni di loro. È stato un lavoro contro-corrente o meglio in mezzo a molteplici correnti e quindi assai faticoso, ma ora mi aspetto da questa giornata che possa continuare con mare più favorevole.

In particolare una questione ed una proposta:
- La questione: se Jonas, come altre organizzazioni, continua a riferirsi al RIPA, allora se ne deve poter discutere il metodo e la clinica, come nel caso della supervisione a Como, che mi fu tolta perché, mi si disse, insistevo troppo sul lavoro preliminare e ciò andava contro il ‘regolamento’ (un solo incontro, gratuito, e poi l’invio ad uno ‘psicoanalista di Jonas’). Per questo il lavoro di equipe fu sostituito dalle supervisioni individuali.
- La proposta: tra l’Istituto (o gli Istituti) e la scuola manca un ‘contenitore’ (per dirla alla Bion, ispiratore del Cartello), che sia luogo di lavoro reale, in presa diretta con il sociale. Con un’immagine renderei così questo luogo: dove gli analisti esperti prendono a bottega i giovani, non solo nell’attività di cura, in tutto ciò che essi fanno a causa della psicoanalisi. Naturalmente ciò implicherebbe per i primi di attrezzare e di aprire delle botteghe o atelier. Dunque il riferimento sono i CPCT.






Uberto Zuccardi Merli

Se prima della pausa pranzo pensavo che quello che dovevo leggere era terribile, poi ho pranzato con Jacques-Alain Miller, gli amici di Jonas e le mie colleghe, ed ho detto che questo testo proprio non si può leggere. Dunque manderò un altro testo a Jacques-Alain e ora vi leggerò una nota che mi interessa passarvi e finire questa serie di interventi.

Anche se resta un dolore per l’accoglienza pessima che ha avuto Jonas, ed espulsiva in questi anni, esiste anche un dovere di non guardare fissamente al passato, di non ruminare l’odio, per puntare a una nuova strategia del Campo Freudiano in Italia, che con Jacques-Alain Miller possiamo studiare nell’immediato futuro, per situarci ad un altro livello di importanza nel pubblico.

Un legame nel Champ Freudien italiano che includa tutte le potenzialità istituzionali del Campo in Italia, senza necessariamente frequentarci assiduamente, perché si hanno caratteri, stili di lavoro e di azione molto diversi, ma in nome, se non dell’amicizia, del rispetto tra istituzioni, si tratta di accogliere lo slancio che Jacques-Alain ci indica come prioritario per noi. Non il far west, ma preservare la via dell’inconscio nella società, nella cultura, nell’azione politica, nella scienza, come dispositivo etico a tutela della soggettività e offrire la somministrazione sociale dell’analista per contrastare la deriva scientista antiumana della nostra civiltà opponendo pubblicamente protocolli di verifica dell’efficacia delle cure analitiche alla medicalizzazione di massa del sintomo. Grazie.


Dibattito conclusivo

Jacques-Alain Miller: Bene. Ora abbiamo circa tre ore, senza programma, per parlare come vogliamo. Chi vuole parlare?

Luisella Brusa: In apertura J.-A. Miller ci presentava questa Conversazione come un momento di laboratorio del Campo Freudiano, non solo per l’Italia, ha aggiunto. Mi sono chiesta cosa volesse dire questo e ascoltando lo sviluppo della Conversazione ho pensato che si può leggere così, forse: stiamo vivendo un momento di Scuola Una e penso alla Scuola Una che abbiamo fondato a Buenos Aires nel 2000. La Scuola Una non coincide con la struttura organizzata dell’AMP. La Scuola Una è quella che raccoglie l’agalma dell’AMP. A partire da questa si inventano i quadri istituzionali che servono alla causa psicoanalitica. La scuola Una, si disse allora, è non-tutta, è rifondata ogni anno sul desiderio rinnovato dei suoi membri di appartenervi, si sottolineò all’epoca che è una Scuola al femminile. Questo femminile non lo intenderei nel senso dell’esclusione, alla Cecilia Sarkozy, che stamattina veniva ricordato. Si sa che il femminile ha molte accezioni poiché ciascuna è donna in modo diverso; io penso piuttosto che oggi si tratti di cogliere l’occasione per portare il desiderio per la psicoanalisi in un campo più vasto, quello delle battaglie culturali che ci attendono, che J.-A. Miller ha disegnato stamattina e che ben conosciamo anche in Italia.

Trovo azzeccata la scelta dei significanti che J.-A. Miller ha proposto nel suo Comunicato n. 6: i “regolari” e gli “irregolari” della Scuola. Per il compito che ci attende va bene l’esercito regolare che abbiamo e, per quanto mi riguarda, dicevo scherzando poco fa, mi riconosco più tra i regolari che tra gli irregolari, ma non-tutta. Riconosco che quando una battaglia è della portata di quella che attende la psicoanalisi, l’utilità degli irregolari è enorme e ben vengano dei fratelli irregolari per quanto mi riguarda. Vi propongo uno scenario, una fantasia per il prossimo futuro del Campo Freudiano: ci sono due istituti, essi ci sono, è un fatto. Due istituti sono due strumenti, possono funzionare in una competizione virtuosa. Sarebbe una buona idea addirittura potenziarne l’alterità il più possibile. L’istituto fondato da Recalcati si presenta specializzato sui cosiddetti nuovi sintomi (anoressia, attacchi di panico, depressione, ecc.) e sull’analisi sociale; nell’Istituto Freudiano vi sono colleghi che hanno una pratica e una teoria senza eguali sull’autismo, il trattamento dei bambini, il maltrattamento e l’abuso. Vi faccio notare che copriamo in questo modo i principali punti sensibili della battaglia attuale in campo “psi”. L’insegnamento che offriremmo in entrambi potrebbe essere lo stesso, dal punto di vista della formazione, quello dell’orientamento lacaniano. Ma potremmo accentuare i significanti di eccellenza di ciascuno per allargare la nostra offerta, coprire un campo più vasto di significanti specialistici, quelli che circolano e fanno presa nel mondo sociale e culturale. Per questo occorre uno sforzo di invenzione e di immaginazione.

Ciò che conta è che l’agalma sia riconosciuto nella Scuola Una, che può anche essere leggera, giusto il punto di alloggio di ciò che muove le vie differenti, particolari a ciascuno, per servire la causa analitica. Per questo apprezzo l’intervento conclusivo di Zuccardi che si è espresso chiaramente sul suo rapporto con la Scuola.

Panayotis Kantzas: Forse non capisco bene. Mi sembra che tutto stia andando verso la direzione di “Volemoci bene”, ma io ho un problema personale e lo pongo in questi termini. Non è un problema politico; io che sono il più politico di tutti lo pongo come una questione personale. Massimo Recalcati, che è un ragazzo onesto, dice che la casa dove io sto da vent’anni è una casa che fa schifo, dice che non c’è etica, dice che lì dentro lui non ci può stare. Bene, se questo è vero, e io lo voglio verificare, non ci posso stare nemmeno io: o sbaglio io, o sbaglia lui. Se le cose stanno così io devo andare via e devo fare la contabilità della mia vita. Jacques-Alain, tu avevi i capelli neri e anche io avevo i capelli neri, c’è una fotografia, eravamo insieme vent’anni fa…

Jacques-Alain Miller: Non ho più i capelli neri?

Panayotis Kantzas: No, almeno io non li ho più.

Jacques-Alain Miller: Non mi guardo mai allo specchio e la gente che mi parla mi dice che io ho i capelli neri…

Panayotis Kantzas: Oggi c’era un bambino con sua madre che lo allattava. Io ne ho visti parecchi di bambini crescere qui dentro e di arrabbiature ne abbiamo prese più di una… E con Di Ciaccia, e come no… e come no… Quando ci tappava la bocca dicendo “Miller ha detto così!” e noi tutti zitti, e sai quanti accidenti ti si mandava, quando si usciva fuori dalle porte. Poi però pensavo che Antonio aveva trasformato la sua cucina nel luogo in cui pubblicava e lavorava la rivista La Psicoanalisi e allora tanto di cappello! Gli volevo bene per questo. Rompeva le scatole per dell’altro, gli volevo bene per questo. Lo stesso con Focchi, lo stesso con tutti gli altri. Ma se di tutto questo Massimo, che è un ragazzo onesto, dice che fa schifo, io me ne devo andare, devo fare la contabilità. Mi rimangono dieci, quindici anni. Sono quasi vecchio, ma qualcosa potrò fare. Grazie.

Roberto Pozzetti: Intanto ringrazio Jacques-Alain Miller per essere venuto qui. È un contributo importante che ci aspettavamo da anni, in effetti. Io sono Roberto Pozzetti, partecipo alle attività della SLP e sono presidente di Jonas a Como. Intanto la ringrazio perché il metodo che ha utilizzato mi sembra molto chiaro, cioè attraverso le e-mail emerge la dimensione più immaginaria, che ha volte ha raggiunto dei punti di asprezza abbastanza forte, seppure in una dimensione civile, ed ora c’è una elaborazione simbolica più evidente, a partire dal Comunicato n. 6, in cui lei parla di due case nel campo, una casa c’è già, l’altra di fatto si sta costruendo e si sta arredando, che è quella dell’IRPA, che peraltro io conosco poco, pur lavorando in Jonas fin dalla sua fondazione. Parla, come diceva Luisella Brusa di “esercito regolare” e di “guerriglieri irregolari”, che possono collaborare in fondo rispetto all’avversario che è quello delle TCC.

Darei una breve testimonianza a partire anche da quello che Viganò ha detto sulla mia esperienza in Jonas e nella SLP. Io faccio riferimento alla SLP da molti anni. Leggo Freud da quando avevo 15 anni, Lacan da 20 anni e per me è inevitabilmente importante il riferimento al GISEP, poi la SISEP. Dal ’98 sono aderente alla SISEP e poi ho partecipato alle attività della SLP, ed ho fatto richiesta di diventare membro SLP. Sono in Jonas dal momento in cui abbiamo cominciato a ipotizzare questo progetto, per cui dal 2002. Ho avuto fin dall’inizio il ruolo di responsabile della sede di Como e da quest’anno, per cui dal 2007, c’è una situazione, diciamo così, di autonomia, per cui ogni sede è una Onlus ed io ricopro al momento il ruolo di presidente, poi spero ci siano altri a prendere il mio posto successivamente. Posso dire questo: nella mia esperienza tutti i miei tirocinanti, tutti coloro che hanno lavorato o lavorano in Jonas sono stati o sono allievi dell’Istituto Freudiano o della Sezione Clinica di Milano. Tutti. Questo è un dato importante che credo vada in una direzione di collegamento per la Scuola. Ho letto in questi scambi di mail che ci sarebbe, da parte dei soci di Jonas, un disinteresse per la SLP. Non è vero questo, da parte della mia esperienza: alcuni partecipano alle attività, hanno fatto domanda per diventare membri. Come diceva Viganò abbiamo avuto la supervisione sua, che fa parte del consiglio della SLP, ed è stata un’esperienza molto importante che poi abbiamo concluso in parte per ciò che diceva Viganò, in parte anche per la scelta di optare più sui controlli individuali da parte dei terapeuti. Qui ci sono le persone da cui vado per il mio controllo e possono testimoniare dei casi che porto loro in controllo. Per esempio, oltre a proseguire con i controlli che già facevo, ho aggiunto, se così si può dire, dei controlli con il presidente uscente della SLP. Per questo mi sembra che ci sia un legame importante con la SLP, legame che si vede anche nei controlli che facciamo, del cartel che facciamo in Jonas Como. Viganò svolge la sua attività clinica nella sede di Jonas Como, per cui mi sembra che ci sia una possibilità di collaborazione e di articolazione importante. Porto questi dati e non vado oltre perché non vorrei annoiarvi, anche se ci sarebbero molti altri elementi che vanno nella direzione della collaborazione.

Passo alla questione dell’IRPA, perché è questo l’elemento nuovo. IRPA che conosco poco, non sono docente dell’IRPA, non so molto. Di fatto c’è una seconda casa, una nuova casa ancora da arredare, da completare, da ristrutturare. Io spero che l’articolazione tra queste due case sia quella del “sia-sia”, del “vel” e non dell’“aut-aut”, per fare un riferimento al Seminario XI. Se prevale la posizione dell’”aut-aut”, o l’una o l’altra, allora sono un po’ preoccupato rispetto alle sorti della psicoanalisi lacaniana, alla quale tengo molto.

Vicente Palomera, Presidente della Federazione delle Scuole Europee di psicoanalisi: Buona sera a tutti. Questa mattina ho imparato tutto quello che si è sviluppato nella Scuola italiana in questa settimana. Come voi sapete rappresento la Scuola Europea di psicoanalisi da luglio e adesso mi trovo nel momento di comprendere l’attuale situazione delle diverse scuole della federazione delle scuole europee. Devo dire che voi siete coscienti dell’importanza che la SLP ha in questo momento in Europa. Questa discussione e questi scambi di questa settimana hanno prodotto in me un sentimento di grande interesse e una buona impressione del livello di discussione in questa Scuola. Io credo che tutti gli spagnoli e tutti i francesi sono in questo momento in deficit, possiamo dire, rispetto alla Scuola italiana e a questo dibattito che si è sviluppato questa settimana, che dimostra una vivacità che io non conosco in Spagna, posso dire, benché in Spagna si lavori molto, e neanche in Francia. È una situazione aperta, oggi abbiamo ascoltato i colleghi della Scuola con una determinazione e degli argomenti notevoli a livello di quello che ci si aspetta da una Scuola di psicoanalisi.

Il punto della questione che voglio trasmettervi è che voi siete una Scuola molto avanzata in questo senso tra le Scuole europee, non soltanto a livello della Scuola ma a livello personale. Non conosco i colleghi della scuola italiana. Prima che nascesse la Scuola italiana conoscevo Marco Focchi dai primi anni Ottanta, l’ho conosciuto a Barcellona, Antonio Di Ciaccia nel Campo Freudiano, Erminia Macola è venuta a Barcellona invitata dai catalani, Virginio Baio e Massimo Recalcati, di cui sono io stesso responsabile di aver fatto conoscere in Spagna le sue elaborazioni. C’è un transfert della gente in Spagna per la sua critica sulla anoressia. Posso parlarvi anche di Martin Egge, di Domenico Cosenza che è regolarmente invitato per le attività del Campo Freudiano. Dunque i colleghi sono conosciuti in Spagna. I loro libri saranno pubblicati. Martin Egge, Cosenza, Recalcati ed altri, di sicuro Antonio Di Ciaccia, saranno pubblicati in spagnolo perché in Spagna è un momento in cui si sta facendo conoscere l’opera e il Campo Lacaniano in tutta la sua potenza.

Per me è una sorpresa, in tutto questo contesto di avanzata, che ci sia una crisi. Un momento in cui la Scuola italiana è così forte, a livello di Scuola, di diffusione e per le pubblicazioni a tutti i livelli, si produce questa crisi. Credo che su invito di Jacques-Alain Miller dobbiamo avere un momento di riflessione su che cosa succede, soprattutto dopo le notizie che arrivano dalla Francia dove si prevede una lotta a livello dello Stato per la psicoanalisi. Non pubblica…

Jacques-Alain Miller: Dell’opinione pubblica. Attaccare lo stato non è possibile legalmente.

Vicente Palomera: Ma ho detto questo? Sarà una reminiscenza della mia giovinezza! Quello che voglio dire è che, prima di tutto, il problema è Jonas. C’è una discussione, so che ha creato un istituto nuovo, ma a livello della SLP non vedo perché Recalcati debba decidere di mescolare tutto, perché collega l’Istituto con la Scuola. Domanderei, dunque, a Massimo Recalcati di riflettere su questo punto.

Jacques-Alain Miller: È per dare emozioni agli altri. Devo riconoscere a Massimo, che sa dare emozioni agli altri. Il problema in Spagna è l’assenza di un Recalcati, di un personaggio capace di muovere la libido straordinaria, un’energia che si può usare per il bene pubblico del Campo Freudiano.

Vicente Palomera: Non c’è bisogno di un Recalcati in Spagna, basta lui, lui stesso crea un transfert in Spagna e potrebbe creare un altro Istituto a Barcellona, una Scuola in Spagna. Mi congratulo veramente per questa Conversazione che ha voluto J.-A. Miller, per il livello della comunicazione che ho potuto vedere oggi e per la prosecuzione di questo dibattito perché vedo che è un inizio e non un punto di arrivo, inizio che deve andare al di là dell’Italia e della Spagna.

Jacques-Alain Miller: Il governo spagnolo sicuramente organizzerà una campagna per la depressione. Nel governo di Zapatero la campagna anti-depressione si avvicina. In Francia abbiamo organizzato una risposta in quindici giorni; in Italia e in Spagna abbiamo più tempo, ma bisogna cominciare subito a creare, io creerò – come diceva Massimo – un nuovo ambito istituzionale per questa lotta.

Vicente Palomera: Finisco, quindi, dicendo che sono per questo nuovo slancio di Massimo.

Francesco Giglio: Mi chiamo Francesco Giglio, sono membro della SLP e faccio parte di Jonas fin dalla fondazione, da quando ci riunivamo nello studio di Recalcati, perché non c’era nulla di questa organizzazione, che poi è diventata piuttosto grande. Intanto vorrei ringraziare Miller perché quantomeno il clima non è quello di un’altra epoca, che io temevo si sarebbe ripetuta, la vicenda della Maiocchi, per parlarci chiaro, che è stata una vicenda che al di là della scissione, è ancora dolorosa per la comunità milanese. Nei suoi strascichi, ha soprattutto avuto l’effetto di riportare a casa un gran numero di persone, perché al di là di chi si è messo di qua o di là, e di là sono andati in pochi, l’effetto vero è stato quello di rimandare a casa un gran numero di colleghi che non sono più con noi. Dunque temevo un altro evento di tal genere piuttosto deleterio, alla fine, sia per la psicoanalisi nel suo insieme, sia evidentemente perché mi toccava effettivamente essendo implicato in entrambe le fazioni. Implicato in quanto “regolare” nel senso che io non sento un’appartenenza distinta.

Ringrazio anche Viganò per i contributi di questi giorni, perché mi sembra che tutti siano andati nel senso di stemperare. Ora perché ci sia questo conflitto, ci sia stato o ci sia, perché ora siamo in un momento in cui sembra che si prenda la piega di evitare lo scontro, ma evidentemente un conflitto c’è. Ora diciamo che io non ho capito bene la fonte di questo conflitto. Dico che un’istituzione perfetta non esiste e non possiamo illuderci in quanto analisti che ci sia un’istituzione perfetta, quindi se ci sono delle critiche da fare a Jonas, e ci sono, non c’è dubbio che non sia un’istituzione perfetta. D’altra parte, non si può dire che la SLP viceversa sia un’istituzione perfetta. Non lo può essere, quindi mi stupisce a volte questa illusione, soprattutto degli analisti, visto che parliamo di analisti, di cercare qualcosa come se potesse esserci dimenticando tutte le teorie che costruiamo, che ci raccontiamo sull’Altro che non esiste, quando poi al dunque cerchiamo qualcosa dove tutto torni e con grande precisione.

Cosa ha provocato questo? Credo che, da un certo punto di vista, ci siano anche delle questioni personali. Vedo molti ex-amici che poi sono diventati nemici e si alimenta un certo scontro che però io inizierei a stemperare in funzione del fatto che sono vere molte cose. Ci può essere slealtà, in certi casi anche disonestà, mancanza di riconoscenza, ma d’altra parte l’uomo è quello che è, ce lo insegna Freud stesso, anche sull’uomo si ripercuote la stessa questione, non c’è la perfezione. Dunque, nei limiti del possibile, io credo che queste cose vadano molto stemperate, anche perché altrimenti confermiamo qualcosa che esiste nel Campo Freudiano da quando c’è, vale a dire una continua rottura, scissione, che ha provocato e provoca una grande frammentazione. Non mancano certo colleghi a orientamento lacaniano che agiscono sparsi, a gruppi di tre, o di due. Sembriamo il centro dell’Ulivo in Italia in questo momento, in alcune situazioni.

Concludo su questo. Il mio è un invito, per quanto possibile, a una certa unità, nel senso che non mi sembra che abbia senso arrivare a delle rotture quando non ci sono questioni di sostanza che portino alla rottura. Non so se sono ingenuo, ma questo è il contributo che mi sento di dare: il mio è un invito all’unità.

Jacques-Alain Miller: Volevo fare un breve commento sull’affermazione, che avete già sentito questo pomeriggio, secondo cui “non esiste un’istituzione perfetta”. È un esempio del proverbio che dice che “la perfezione non è di questo mondo.” Questo, però, non sarebbe un motivo per accettare un’istituzione degenerata. Si può accettare un’istituzione imperfetta ma, se si pensa che l’Istituto freudiano e la SLP sono delle istituzioni degenerate e marce fino all’osso, indegna dal punto di vista etico e scientifico, allora se si pensa questo, le si deve denunciare.

Ma allora non si deve andare a pranzo gentilmente con la direttrice dell’Istituto Freudiano di Milano. Io sono andato a mangiare con i fondatori dell’IRPA e Massimo era felice di dirmi che Luisella Brusa sarebbe venuta a pranzare con noi. Luisella dirige l’Istituto Freudiano a Milano. Allora, se è un’istituzione degenerata dal punto di vista etico e scientifico, non si mangia con lei oppure, se si pranza con lei, lo si fa per avvelenarla. Quindi dico che è tutta una commedia, questa denuncia di degenerazione etica e scientifica rivolta a un istituto di cui io stesso sono il direttore scientifico. E quando si ascoltano Massimo e gli altri, che dicono che “la perfezione non è di questo mondo tranne me”, allora veramente io dico che è tutta una commedia. Mi piace molto il teatro, quindi sono molto contento. Ma, a un certo punto, bisogna parlare di cose serie: l’Istituto freudiano non è degenerato, la SLP non è degenerata, l’IRPA non è degenerata – non ha ancora avuto il tempo di degenerare, perché ha solo quindici giorni…Quindi, continuiamo: chi vuole prendere la parola?

Antonella del Monaco: Vorrei puntare un po’ all’osso. Cosa intendo con questo? Intendo che vorrei sgombrare il campo dalla questione del personaggio, dunque la questione che mi interessa non è quel personaggio che si chiama A, B, C o D, ma mi interessa la posizione che occupa e che tiene. E dunque, qualunque sia il suo nome, mi domando se quella posizione è al servizio della causa psicoanalitica o, esattamente al contrario, se è una posizione che utilizza la psicoanalisi per favorire il proprio fantasma. E, dunque, quello che mi chiedo è: aver compiuto l’atto per cui c’è la creazione di un nuovo istituto significa essersi messo al servizio della causa? Perché è vero che siamo di fronte a una realtà sociale che richiede la nostra presenza e la nostra responsabilità, ma è proprio per questo che abbiamo il dovere di tenere una posizione etica. Per quanto concerne la questione del molteplice, lo amo e credo che molteplici siano stati i 50, 60, 70 messaggi mail arrivati, sono un’espressione del molteplice perché ciascuno ha detto secondo il proprio stile, secondo il proprio rapporto con la causa. Ma l’Uno era proprio questo Uno della presa in carico di questo rapporto alla causa analitica. Io credo che il molteplice abbia bisogno di un punto di capitone. Di Babele ce n’è già troppa in giro. Credo che anche Lacan non puntasse sugli apache, ma sul manierismo, sappiamo che amava il manierismo e che, pur avendo un rapporto col classicismo, aveva delle invenzioni… Allora vado a concludere, se nel ’99 lei ci ha posto di fronte a una domanda, a una questione, o la Scuola o la continuità – perché ci disse allora che non era possibile una Scuola se non in una forma di discontinuità –, oggi mi sembra che noi, membri della SLP col nostro dibattito in qualche modo diciamo: o il godimento di Cassandra, visto che siamo passati da una Lucrezia a una Cassandra, quindi la pulsione di morte di Cassandra, o invece saperci fare, dimostrare che ci sappiamo fare con questa pulsione di morte.

Jacques-Alain Miller: Lei ha visto la pulsione di morte oggi?

A. Del Monaco: Beh! dire, come ho sentito dire, che non si torna indietro rispetto alla rottura con la SLP, sicuramente non è qualcosa della vita, non è qualcosa che va in quella direzione.

Jacques-Alain Miller: L’ha vista perché desiderava vederlo. Io ho visto altro e credo che ciò che ho visto io sia più vero di ciò che ha visto lei. Lei ha visto qualcosa di triste, io invece ho visto qualcosa di allegro. Faccia attenzione a non essere influenzata dalle campagne per la depressione. Non si deve fare il depistaggio della depressione così negli altri. Io preferisco fare il depistaggio della mania negli altri. È più tonico. Mi scusi, è uno scherzo, ma comunque…

Antonella Del Monaco: Lo accetto.

Massimo Termini: Innanzi tutto un punto mi sembra importante, specie in questo momento che ci avviamo a puntualizzare l’uso delle parole, come lei diceva una cosa è considerare un’istituzione imperfetta, un’altra cosa è considerarla degenerata. Su questo bisogna allora che, come lei ci indicava, si faccia chiarezza. C’è una differenza importante in questo.

Volevo, però, puntare il discorso su un altro punto: lei, alla fine della prima tranche della mattinata, ci ha dato un punto di rilancio, cioè discutere, entrare nel dibattito, nella battaglia, nella lotta ognuno coi propri tempi e modi, con l’esterno, con tutto quello che le politiche sociali centrali ci presentano. Noi abbiamo questo problema anche in Italia. Queste cosa accadono anche in Italia. Allora, in effetti, essere uniti rispetto a tutto questo che ci attende sarebbe importante. Però, in questo momento, noi stiamo discutendo di una spaccatura, di qualcuno che dice: non voglio più stare qua dentro. Allora si potrebbe pensare, a partire dell’obiettivo che lei ci indica, a un’unità. Luisella Brusa indicava questo punto. Però in che modo?

Cioè dividere gli istituti, uno si occuperebbe dei nuovi sintomi, l’altro dell’autismo, separare le due cose? Separare il campo dividere il campo di quello di cui di più ci dovremmo occupare? Io non lo so… Lo dico veramente come una questione, una domanda… È interessante la funzione che gli date, cioè nuovi sintomi e autismo. È importante, in questo momento, non ragionare come forzati o come giudici.

Altro punto: La soluzione che si apre allora è lavorare all’articolazione tra queste due case. Io personalmente penso che abbiamo lavorato tanto per creare la SLP, chi in un modo chi in un altro. Per creare e per mantenere l’Istituto Freudiano, per creare e per mantenere il CECLI di Roma, adesso il CECLI di Milano e speriamo che se ne aprano altri. I consultori, la rete delle istituzioni internazionali. A me interessa molto preservare questa situazione e, a partire da questa situazione, rispondere a quello che il sociale e le politiche socio-sanitarie ci chiamano in causa. A partire, però, da questa situazione.

Chiudo su un punto: lei indicava la questione della chimica. È preciso qui. Mi ha risuonato molto, ma c’è anche la questione della quantità: quante energie abbiamo noi? La mia preoccupazione, che vi lancio, è se rischiamo – e noi in Italia siamo giovani, non siamo tanti come in Francia –, se rischiamo di occupare tutte le nostre energie a elaborare l’articolazione tra queste due case e nel frattempo sprechiamo le poche energie, perché non siamo in tanti, siamo in pochi, quelle che dovremmo veramente convogliare verso l’obiettivo che lei ci ha dato. Per me questa è una preoccupazione, la lancio lì.

Massimo Recalcati: Io non parlavo di una istituzione degenerata, ho parlato di degenerazioni al plurale, cioè di tendenze, che non giudico eticamente e che investono a mio giudizio la politica dell’Istituto e la politica della SLP. Quindi non è un giudizio sull’essere dell’istituzione, è un giudizio su delle tendenze. Per questo mi sono permesso di condividere il pranzo con la mia amica Luisella Brusa che è direttore dell’Istituto: non c’è un giudizio sull’essere.

Io non conosco Antonella del Monaco, credo che lei non conosca me. Non ho mai scambiato una parola con lei, però lei pensa che io sia uno che non è al servizio della causa analitica, ma che mette la causa analitica al servizio della sua persona. Come Antonella Del Monaco, che non so neanche che faccia abbia, più o meno, si permette di dire una cosa simile su di me? Non ci ho mai parlato una volta.

Jacques-Alain Miller: Questo è un argomento classico dei dibattiti psicoanalitici dopo Freud. C’è una mancanza che non appare in questo argomento.

Massimo Recalcati: Volevo dare una buona notizia ad Antonella del Monaco, così impara a conoscermi: ho cambiato idea, non lascerò la SLP. La conversazione con Jacques-Alain Miller, con Vicente Palomera, con Luisella Brusa, con molti altri amici, mi ha convinto a cambiare idea. Grazie

Marco Focchi: Ci sono tante cose che mi sono piaciute in questa Conversazione, ultima in ordine di tempo il bel gesto di Uberto, che teatralmente straccia il foglio dei Cahiers de doléances che aveva preparato, dice, cioè “lasciamo perdere il passato, basta versare acqua, inutile fare una conversazione per dire chi ha cominciato, sei stato tu, no sono stato io…”. Ne farei un’icona di questa Conversazione. Non siamo a conversare su chi ha cominciato a spingere l’altro, su chi ha cominciato a dirgli scemo. No.

Direi che quasi tutte le incertezze di questa Conversazione mi spingono a dirlo. Vale a dire tutte, ma non troppo. Perché un attacco frontale a un AE della Scuola, che è tuttora in atto, non posso considerarlo come un gesto dialettico. Sembra piuttosto un gesto di chiusura, non definitivo. Il gesto di Massimo mi sembra evidente. Però chiedo dei chiarimenti, perché, come ha messo bene in rilievo Chiara Mangiarotti, mi sembrava un intervento molto preciso, ha colto i punti. Un conto è confrontare delle opinioni, un conto è confrontare degli atti. Delle opinioni sono in dialettica, degli atti sono atti che segnano un prima e un dopo. Qui sul tappeto nella Conversazione abbiamo molte opinioni, imperscrutabili, e abbiamo anche degli atti. Un attacco a un AE è un atto. L’AE è la perla della Scuola, il risultato della pratica, ciò in cui la Scuola costituisce il proprio metro. Poi percorro un po’ a carrellata.

Mi sono piaciuti molti interventi, ne cito alcuni: mi è piaciuto molto Fabio Galimberti. Ci presentiamo tutti un po’ con dei retaggi filosofici, in questa Conversazione, e Fabio si presenta sotto l’etichetta aristotelica amicus Plato magis amica veritas. Va bene essere amici, ma non facciamo la società degli amici. C’è una Causa che viene prima magis amica causa e poi in questo siamo amici tutti. Poiché le società degli amici hanno anche una storia difficile qui in Italia.

Mi è piaciuto Lolli perché parte da delle critiche, da delle autocritiche. Critiche che riconosce, altre a cui ribatte. Questo è legittimo, questo va bene, questo mi sembra all’interno della nostra dialettica. Vorrei avere tante persone così con cui parlare. Non a caso Franco Lolli è uno con cui ho cercato di parlare anche prima di questa Conversazione. Ho cercato di parlare con molti prima di questa Conversazione per capire cosa passava in testa alle persone nella Scuola e direi che, in fondo, l’intervento di Franco Lolli mi mostra il disagio in cui molte persone si sono trovate, in situazioni che magari non conoscevo completamente e poi quando queste hanno dato forma alla loro configurazione oggettiva vi si sono trovate smarrite o imprigionate. Io vorrei tante persone così con cui parlare, come Francesco Giglio, come Anna Zanon, persone che appartengono a Jonas, con le quali io ho parlato e che sono magari anche investite di incarichi all’interno della Scuola. Perché? Perché la politica della Scuola è questa, cioè prendere le persone una per una, riconoscerne la validità, vedere se sono adatte per un certo incarico e investire quella persona di quella carica. Non mi importa niente se la persona è o non è di Jonas. Anna Zanon è la persona migliore per ricoprire l’incarico della segreteria di Venezia e Francesco Giglio altrettanto qua a Milano. Questa è la politica della Scuola.

Ora questo è un momento di crisi. Non bisogna negare il passato. Stracciamo i fogli, ma ci chiediamo cosa è successo. C’è stato un momento, dal 2004 in poi, difficile, più teso, di confronto, ma non è una configurazione fissa della Scuola. Adesso le cose si stanno allargando in un modo diverso e credo che sia importante riconoscerlo. Io vorrei, quindi, tante persone con cui parlare, tante persone come Lolli, come Giglio, come Uberto, che non stanno a rivangare delle cose insensate, ma che guardano al futuro. Guardiamo al futuro. Guardiamo al progetto che tutti noi vogliamo avere. In effetti questo è possibile perché Jonas è una istituzione che riguarda i nuovi sintomi, è un posto di lavoro, come è stato sottolineato, in cui ci sono persone che sono nella Scuola e che si riconoscono nella Scuola, e che non ha nei propri codici costitutivi il rifiuto della Scuola, anzi, sono stati aggiunti negli statuti dei riferimenti all’AMP.

Non è questo assolutamente un problema. Invito tutte le persone che hanno bisogno di parlare ad esprimersi.Con le persone che stanno in Jonas non c’è nessun problema. Jonas non è un problema. Un Istituto che ha nei propri codici costitutivi il rifiuto della Scuola sì.

Jacques-Alain Miller: L’Istituto è un problema? L’IRPA?

Marco Focchi: Un istituto che nei propri codici costitutivi ha un rifiuto della Scuola nel senso di…

Jacques-Alain Miller: No, ma è finita…

Marco Focchi: È finita, ma ci si deve spiegare. Va bene, stracciamo i fogli come fa Uberto, ma non è che stracciamo tutto.

Jacques-Alain Miller: I membri di una Scuola hanno il diritto di creare dei consultori, hanno il diritto di creare istituti d’insegnamento. Possiamo pensare che la Scuola ha un monopolio di Scuola nel Campo Freudiano, ma essa non ha un monopolio d’insegnamento rispetto ai suoi membri. In Argentina c’è un sacco di gente che insegna all’Università, fuori dall’Università, dentro degli istituti di psicoterapia ed anche in Francia. Qui forse è più spettacolare perché c’è la legge Ossicini. Ma ci hanno anche spiegato che oggi lo Stato dà le autorizzazioni piu facilmente. Inoltre ho anche capito, ieri sera, che lo Stato impedisce che gli allievi di un anno di corso siano superiori a un numero di venti. Dunque, in un’enorme metropoli come Milano, due istituti non sono neppure sufficienti, bisogna crearne quattro, cinque, sei. Allora o è Recalcati che li crea, oppure bisogna che la SLP crei altri istituti a Milano. A proposito della “perfezione che non è di questo mondo”, io sono direttore scientifico dell’Istituto freudiano e non avevo mai capito che c’erano solo venti persone per anno nei corsi. Ma se ci sono solo venti persone, ci vogliono venti istituti a Milano! E ora facciamo la rivoluzione perché ci sono due istituti! Siamo veramente nella commedia, c’è da morir dal ridere. C’è qualcosa che mi sfugge, non ho capito…

Marco Focchi: Adoro la commedia, ridiamo insieme, soltanto mi permetto una piccolo correzione: lei dice che è finito, io suggerisco che sarà finito quando le chiarificazioni saranno avvenute.

Roberto Cavasola: Mi spiace un poco che Recalcati o altri non abbiano un po’ più esplicitato i problemi che ci sono stati. A me avrebbe fatto piacere sapere quali cose sono successe che hanno portato a questi giudizi negativi, anche se mi rendo conto che forse sono cose di cui non è tanto facile parlare. Mi sembra di avere percepito uno di questi problemi, cioè la Scuola, l’Istituto e una struttura come Jonas si pongono a dei livelli diversi e hanno delle dinamiche diverse.

Però, effettivamente, queste strutture come Jonas sono molto preziose perché sono delle strutture dove poi, veramente, si fa la clinica. La clinica che si insegna all’Istituto Freudiano, la clinica per la quale ci deve essere quel desiderio dell’analista che la Scuola deve sapere orientare, poi viene messa in pratica in strutture come Jonas, quindi queste strutture sono molto importanti.

Come anche delle strutture che non ci appartenevano, se non grazie a Massimo Recalcati prima e a Domenico Cosenza poi, come l’ABA, dove la gente poteva veramente fare un lavoro clinico. L’ABA è stata molto preziosa per noi grazie anche a Massimo Recalcati, poi a Domenico Cosenza. Siccome non ho capito bene i problemi che ci sono stati, magari posso aver sentito delle voci, ma credo che uno dei problemi possa essere questo e cioè che le strutture cliniche, le strutture dove si fa un lavoro clinico non sono sufficientemente valorizzate, sia dalla Scuola sia dall’Istituto. Forse non esiste una sufficiente chiarificazione circa quale tipo di riconoscimento, quale tipo di rapporti, quale tipo di dialettica ci debba essere in queste strutture. Direi che il punto è diventato tanto più clamoroso da quando sono stati creati i CECLI, che sono stati presentati come delle strutture ufficiali della Scuola. Inevitabilmente, io penso, anche se non conosco bene questi problemi, forse Jonas è stato un po’ messo in ombra da questo fatto. La Scuola ha i CECLI, sua espressione clinica ufficiale ed è come se Jonas non esistesse, non contasse niente. Allorché evidentemente invece Jonas, come hanno detto alcuni che ne hanno fatto parte, ha suscitato grandi entusiasmi, è riuscito ad accogliere un gran numero di membri, è riuscito a occuparsi di tanti problemi diversi, quindi evidentemente a Jonas andava dato un riconoscimento. Avete fatto tutti quanti dei bellissimi interventi teorici, io sono rimasto stupito dal livello degli interventi, però vorrei anche invitarvi a scendere con i piedi per terra e ad occuparvi di problemi più concreti che sono quelli che poi hanno portato a creare questa crisi. Bisogna inventare delle cose, e forse dobbiamo chiedere a Massimo, che è più creativo di noi. Ci deve essere un canale ufficiale Istituto-Jonas, ci deve essere un canale ufficiale Scuola-Jonas. Non so cosa possiamo inventarci.

Se abbiamo due scuole di formazione dobbiamo inventarci qualcosa perché queste due scuole comunichino tra di loro e allora ben venga anche l’idea di Luisella Brusa. Qui, siamo un po’ troppo monolitici, signori miei! Perché la proposta di Luisella Brusa non va bene, perché non possiamo dire che quelli di Jonas sono più bravi a occuparsi di anoressia, e se diciamo che Martin Egge è più bravo a occuparsi di bambini psicotici abbiamo forse detto una stupidaggine? Scendiamo un po’ con i piedi per terra e vediamo come dare il giusto peso, perché credo che si tratti di questo: se certi colleghi fanno un lavoro, noi gli dobbiamo dare il giusto peso, e io credo che forse questo non è stato fatto abbastanza e quelli di Jonas, forse, si sono arrabbiati per questo.

Antonio Di Ciaccia: Bene. Non sapevo che Corelli, oltre che il violino solo, passasse dall’orchestra al quartetto. Bene sono felice di avere ascoltato che Recalcati fa un passo indietro e rimane nella SLP. Perfetto, ho ascoltato e sentito l’applauso. Però cari signori e care signore, voi non pensate che quando parlate o scrivete non ingaggiate la vostra responsabilità?

Il 12 febbraio 2007 a mezzogiorno e 25 ricevo una mail, per conoscenza, non diretta. La mai è inviata a Jacques-Alain Miller. “Caro JAM” – mi permetto di leggerla – “vi comunico formalmente le mie dimissioni irrevocabili dalla carica di docente dell’Istituto Freudiano. Quelle che giudico essere gravi alterazioni etiche e scientifiche della sua direzione italiana mi impediscono di prorogare ulteriormente il mio impegno in questa istituzione.” Ricevo questo. Non è indirizzato a me. Non ricevo nessun altra mail. Jacques-Alain Miller non mi fa sapere nulla. Non gli chiedo nulla. Recalcati non mi fa sapere nulla, non mi aveva del resto fatto sapere nulla, ho notato sul mio computer – dove ci sono 10.000 lettere che sono arrivate, non da Recalcati, ma da altri – che l’ultima mail precedente a questa era di cinque anni prima, roba del genere. Quindi non so perché.

Taccio. C’è la riunione dei docenti. Erminia Macola chiede che io chieda e, nella discussione, Viganò chiese a Cavasola di chiedere a Recalcati i motivi. Per quanto ne so Recalcati scrive una lettera a Cavasola che, dice, deve rimanere privata. No, cari signori, non si funziona così, non si funziona in questo modo. Voi non potete giocare con la vostra parola e con la posizione dell’Altro in questo modo.

Certo, per questo parlavo di Corelli, quello che ne risulta è un gran teatro. È un gran teatro sì, comico, ma sappiate che non è comico così per tutti. Certo. Ci sono delle associazioni, delle istituzioni, delle cose che vengono fatte in nome della Scuola, è successo in Francia: il CPCT di Parigi non ha lo stesso statuto di un altro centro che non mi ricordo nemmeno più come si chiama, ce ne sono diversi in Francia, di cui mi hanno chiesto di essere, e lo sono, uno dei membri del consiglio di amministrazione, figuratevi un po’! Il nome mi verrà. È quindi chiaro che ci possono essere diversi centri. Non è lì la questione. Pozzetti faceva prima riferimento a uno dei suoi controllori. Mi permette di dire che lei viene da me da diversi anni?

Roberto Pozzetti: Molto volentieri.

Antonio Di Ciaccia: Voilà! Forse l’ho rifiutato perché era di Jonas? Forse ho rifiutato delle persone che sono venute in analisi da me e che hanno detto che erano di Jonas? Signori! Un po’ di serietà! Soltanto prendete responsabilità di quello che fate e di quello che dite! Vi ripeto quello che ho messo nella lettera: meno voci di corridoio, ma questo vuol dire non mettere l’Altro davanti al fatto compiuto. Nelle riunioni dell’Istituto Freudiano, ci sono almeno due se non tre riunioni l’anno dei docenti, è stato proibito alle persone di parlare?

Per rispondere a Cavasola, dico che io non volevo entrare nella tattica, e ce ne sarebbe nella tattica, perché nella tattica potrei mostrare punto per punto dove c’è questo gioco, questo gioco di dire “ti dico di no”, facendo finta di aver detto di sì. È chiaro che tutto è aperto, ok, d’accordo. Non credo che sia stato necessario aprire un altro Istituto offendendo gli altri. Recalcati poteva benissimo semplicemente rivolgersi a Jacques-Alain Miller oppure poteva semplicemente scrivere: “ho creato un altro istituto”. Beh! Perché no? Come vedete il problema rimane grosso, enorme per quanto riguarda la Scuola. Non a caso io stamattina non ho parlato dell’Istituto. Io devo dire che ho detto più volte, più di una volta, che se avessi saputo che, tornando in Italia avrei dovuto prendere in mano l’Istituto, sarei rimasto in Belgio, perché non era la Scuola e a me interessava la Scuola.

Però, ricordo anche la parola che Jacques-Alain Miller mi ha detto quando sono partito: egli ha detto “Tachez de sauver l’École”, “cerchi di salvare la Scuola”. Rispetto alla legge Ossicini, certo. Se non c’era l’Istituto Freudiano, non ci sarebbe stata la Scuola e abbiamo lavorato come dei matti, vi assicuro, abbiamo lavorato come dei matti, più d’uno, perché ci fosse la Scuola. E qualcuno arriva lì dicendo “grandi alterazioni etiche e scientifiche della sua direzione italiana”. Mi porti le prove!

Jacques-Alain Miller: Poi parleranno Virginio Baio ed Emilia Cece, ma vorrei fare un breve commento e quindi rivolgermi ad Antonio di Ciaccia. Lei dice Antonio, se ho capito bene, che sono cinque anni che Massimo Recalcati non le scrive più. È quello che ha detto, vero?

Anche a me capita che gente che conosco, in seguito, non mi scriva per cinque anni e la questione che mi pongo, quando capita a me, è “che cosa ho fatto io per avere questo effetto?”. Io vedo le cose come gli stoici. Ci sono cose che dipendono da me e cose che non dipendono da me. Le cose che non dipendono da me, non posso farci niente, bisogna conviverci. La sola cosa in cui posso agire è sulle cose che dipendono da me. E, quindi, in ogni caso, io mi chiedo che cosa dipende da me in questa faccenda. Per esempio, non posso impedire che ci sia una campagna di depistaggio della depressione, come avviene in tutto il mondo, ma per quello che dipende da me, quello che posso fare è o abbassare la testa o alzarla e darci dentro con i miei trecento Spartani o con i mille membri della AMP. Questo dipende da noi. Non posso fare una guida da un milione di esemplari, ma posso fare invece un Nouvel Âne di diecimila esemplari.

Allora, è già capitato che delle persone rompessero i rapporti con me. Tutti conoscono gli episodi di quanto è successo. Nel 1981, volevo inventare una Scuola che potesse contenere tutti gli allievi del dottor Lacan. Ci sono quasi riuscito, ma c’è stato un terremoto, e c’è stata tutta una parte della vecchia generazione che non ha voluto andare con i giovani. Quei giganti del pensiero erano D.*, C*, M*… Tutta quella generazione non poteva accettare che io avessi un ruolo nella storia. E questo benché io abbia fatto di tutto affinché le generazioni stessero insieme. Nel luglio del 1980 il dottor Lacan è andato a Caracas per il primo Incontro del Campo Freudiano e io ho fatto invitare tutta la vecchia generazione, assieme a quella nuova, con viaggio pagato dallo stato venezuelano. Dunque, pensavo di riuscire a fare questo, pensavo di poter mettere insieme, attorno a Lacan anziano, la vecchia generazione e quella nuova. Poi, una volta tornati a Parigi, M*, che era il mio analista a quell’epoca, dal quale andavo quattro volte la settimana a raccontare le mie storielle, mi ha denunciato pubblicamente in una lettera, in cui non c’era il mio nome. ma tutti potevano riconoscermi. Oggi, siamo venticinque anni dopo, e si sta facendo un processo esattamente per questo. Quindi, egli è riuscito a sabotare quest’operazione.

E io mi sono comunque chiesto che cosa ho fatto io per questo, per meritare questo. Quello che io avevo fatto, essenzialmente era il fatto di esistere. Esistere ed essere il marito della figlia di Lacan. Per realizzare il suo intento forse avrei dovuto suicidarmi – accetto di dare tutto alla causa analitica, ma entro certi limiti – oppure avrei dovuto divorziare, ma non era la mia concezione delle cose. Forse avrei dovuto essere più discreto, ma veramente io non avevo l’intenzione di dirigere alcunché. Inoltre posso dire che, per me, a quell’epoca, non era una cosa decisa il fatto di essere analista. Ovviamente mi ero posto la questione, avevo studiato la clinica, ma non sentivo il richiamo a essere analista. Non ho mai ricevuto un paziente in analisi fino a che il dottor Lacan era vivo. È così. Ed è stato veramente l’atto, perché questo era un atto, di M* che mirava a rompere con Lacan, che voleva espellermi per sempre dall’ambiente psicoanalitico. È proprio il contraccolpo del suo atto che mi ha avviato a lavorate come analista. Ma, per molto tempo, ho continuato a chiedermi “cosa ho fatto male”? Mi sono chiesto in che modo, essendo in analisi da lui, ho potuto generare una simile collera, una simile gelosia nei miei confronti.

È anche vero che M* ha avuto in analisi uno psicoanalista, scrittore e matematico, che si chiama S* e, alla fine della sua analisi, egli si è arrabbiato con lui; lo stesso è avvenuto con Jacques N*, della Scuola Normale, un intellettuale che ha scritto libri e che aveva sposato la figlia di F*. Anche in questo caso M* l’ha schiacciato la fine della sua analisi e mi ricordo che mi chiedevo, quando ero in analisi con M*, se sarebbe finita così anche con me. In ogni caso, si può dire che in lui c’è una ripetizione rispetto ai suoi analizzanti uomini intellettuali, è evidente che quando arrivano alla fine della loro analisi lui ha voglia di ucciderli. Io non ho voglia di ucciderli. Gli analizzanti ragazzi brillanti, io non li uccido. E mi sono comunque domandato: che cosa ho fatto di male per provocare questa cosa, e il fatto che tutto un ambiente attorno a Lacan mi abbia ripudiato e abbia continuato ad odiarmi per venticinque anni, mentre io sono la perfezione di questo mondo.

Io credo alla rettificazione soggettiva di cui parla Lacan nella Direzione della cura, la rettificazione soggettiva permanente, che consiste nel chiedersi qual è la responsabilità che abbiamo nella disgrazia di cui ci lamentiamo. Quello che Lacan lì mette in conto a Freud, in effetti, è la sua lettura di Hegel e della Legge del cuore e del delirio della presunzione. È perché Lacan ha letto questi passaggi più clinici di Hegel che lui li ritrova nel caso di Dora. E questa è la base minima di sostentamento di una posizione analitica. Il fatto di dire è colpa tua non è una posizione analitica, questo è lo stadio dello specchio; la posizione analitica si riconosce perché si cercano e si amplificano le cose che dipendono da noi. Allora, nell’esempio che faceva Antonio, “sono cinque anni che Massimo Recalcati non mi scrive più”, io potrei dire che mi scrive ancora ogni tanto, ma il suo istituto IRPA lo ha fatto al di fuori di me, in segreto e, a quanto pare, ha anche domandato il segreto ai suoi amici che sono in analisi con me. Io potrei dire che Massimo Recalcati ama il segreto, gli piace molto sorprendere l’Altro, saltar fuori come un diavolo dalla scatola e sorprendere il pubblico. Potrei dire questo, ma che interesse ha? È un problema suo. Che cosa dipende da me in tutto questo? Forse Massimo Recalcati non ha sentito in me il desiderio che ci fosse un altro istituto? Forse io gli ho dato la sensazione che volessi il monopolio di un solo Istituto? E forse, siccome non avevo un idea molto precisa di che cosa è l’Istituto nei fatti, gli ho dato quest’impressione. Non saprei.

Ora, però, sono a favore di qualcos’altro. Voglio creare un ufficio destinato a esaminare la creazione di nuove entità in tutto gli ambiti in cui noi siamo attivi. Un ufficio di start-up, ovvero le nuove iniziative imprenditoriali da poco quotate in Borse e ad alto potenziale di sviluppo. L’IRPA è una start-up, abbiamo bisogno di start-up psicoanalitiche. L’errore di Apple, nella fabbricazione dei computer è stato quello di aver custodito il loro proprio programma, il loro errore – per essere precisi – è stato quello di aver voluto essere gli unici costruttori del loro programma. Microsoft, invece, non ha voluto essere un costruttore monopolista del suo proprio programma e, quindi, ha il 95% di quota di mercato, mentre la Apple è rimasta al 5%. Da questo punto di vista, io sono per la politica di Microsoft, voglio i numeri. E, quindi, sono a favore del fatto che i Recalcati del futuro sappiano scriverci, che sappiano anche che non solo accoglieremo bene le loro iniziative, ma che le aspettiamo e che abbiamo bisogno delle loro iniziative. E che i membri della SLP sappiano che i loro dirigenti hanno bisogno delle loro iniziative perché i dirigenti non possono sostituire i membri. Quando Licitra avrà finito di lanciare sassolini contro Massimo, è necessario che faccia anche lui la stessa cosa. Però lui saprà che potrà parlarne prima con me, con Antonio Di Ciaccia, con Massimo Recalcati per avere dei consigli, perché saprà di essere in un ambiente tipo la Silicon Valley, dove si sostiene la creazione delle start-up.

E, quindi, penso che sia il momento di rinunciare al gioco del go. Io non gioco al go, d’altro canto io non gioco a nessun altro gioco, perché il solo gioco che mi interessa veramente è di giocare a tutto questo nella vita. Ho comunque un’idea di come si gioca al go, ho letto la descrizione del gioco del go e, se ho capito bene, il gioco del go consiste in primo luogo nel bloccare i movimenti dell’avversario, si tratta di mettere solo le pedine che bloccano l’avversario. Alla fine, come una sorta di boa, lo si circonda ed egli non può più muoversi. Io preferisco, invece, la guerra dei movimenti. Credo che, se noi blocchiamo i movimenti dell’avversario, blocchiamo anche i nostri stessi movimenti. Se diciamo: io posso controllare soltanto venticinque persone, quindi ci sarà solo un Istituto di venticinque persone l’anno, ci stiamo bloccando noi stessi. Bisogna, quindi, rinunciare al controllo totale. Perché, se si vuole avere un controllo totale e personale, si può avere soltanto un Istituto di venticinque persone l’anno.

Perché ci sono venticinque Sezioni Cliniche in Francia, con 2.500 studenti? Perché ho rinunciato al controllo totale. Perché il controllo si fa da una Sezione Clinica all’altra in modo orizzontale, e non in modo verticale. I conti di ogni Sezione Clinica sono verificati da qualcuno che appartiene a un’altra Sezione Clinica. E io non verifico niente. Io sono “il vuoto”, come diceva Licitra. Ed è essenziale essere il vuoto, e non il pieno. E in che modo ci sono sette Scuole del Campo freudiano nel mondo? Perché non controllo nulla nelle Scuole, anche in Italia. Se avessi voluto controllare con pugno di ferro la Scuola d’Italia, avrei in mano ben poca cosa. Mentre, invece, è una cosa è estesa e viva grazie a tutti voi. Dunque, nessun controllo assoluto verticale, ma un controllo orizzontale, metodico.

È vero, non è così che è cominciata vent’anni fa. Vent’anni fa, l’Italia era un deserto, dal punto di vista del Campo Freudiano. Scoprivo solo qualche persona che era passata dal divano di V*, il che m’ispirava poca fiducia. C’era anche G* nell’ambiente con le sue strane maniere. L’unica persona che mi ha ispirato fiducia è stato Antonio Di Ciaccia e questa fiducia è rimasta sempre la stessa da ventisei anni a questa parte. Antonio Di Ciaccia ha ancora tutta la mia fiducia, come il primo giorno, perché non l’ha mai delusa. In un certo quale modo, tra noi due c’è questo patto, che non ho mai fatto con nessuno, che è in un certo senso questo – se posso dirlo senza sembrare blasfemo – io gli ho detto: “Tu sei Antonio e su questa pietra costruirete il Campo Freudiano in Italia”. Bene, sta continuando ancora e ora chiedo a questa pietra di alloggiare tutti i giardini di Babilonia, tutti i piani dei giardini di Babilonia, tutte le persone dei giardini di Babilonia, e penso che questa pietra sia abbastanza solida e larga per aiutarmi in questo. Grazie.

Virginio Baio: Perdo la testa, perdo il Nord con i cambiamenti. Cambia ogni minuto. Io vorrei solo dire che vorrei contare su questa pietra sulla quale Jacques-Alain conta.

Mariela Castrillejo: Sono membro SLP e sono la Presidente di Jonas. Voglio ringraziare Marco Focchi per aver detto in questa sede che Jonas non è un problema per la SLP. Non è la prima volta che me lo dice, me lo ha detto in una conversazione privata, però è diverso dirlo qui. Mi ha detto la SLP è cambiata. Per me l’ostacolo, rispetto al fatto di lavorare insieme nella SLP, è che Jonas fosse un problema. Oggi Marco mi hai dato un segno che l’SLP è cambiata perché lo hai detto qui.

Voglio ringraziare anche Carmelo Licita per le scuse che ha chiesto. Non per le scuse che ha chiesto a Recalcati. Lui ha chiesto scusa a chi aveva offeso. Si sono sentiti offesi membri della SLP, giovani che si sono formati all’Istituto Freudiano e che lavorano a Jonas, in nome loro accetto le sue scuse.


Carlo Viganò: Direi una cosa per riprendere quanto dicevo nel mio intervento e per non perdere, come diceva Baio, l’orientamento. Chiederei una forza in più, oltre alla pietra solida d’angolo, che ci sia non solamente un riconoscimento, ma l’accoglimento di tutte le iniziative di gruppi. Propongo anche che ci si metta al lavoro per individuare un operatore nuovo, quello che auspicava Miller stamattina, per operare il confronto a livello del lavoro clinico e della formazione. Questo, infatti, è uno strumento in presenza del quale si può, nel tempo, stabilire una linea di continuità tra gli istituti che creiamo adesso e gli istituti TCC a venire che nascono tutti dalla psicoanalisi di Freud, non dimentichiamolo.

Giuliana Kanzà: Nel breve intervallo in cui sono uscita c’è stato questo coup de théâtre in cui le cose sono molto cambiate e poi ho sentito Antonio che veramente ha tolto un po’ di scena a questa rappresentazione teatrale. Ha riportato, mi sembra, una serietà che lei stesso ha sottolineato nel suo intervento. A me piace che lei l’abbia chiamato “la nostra pietra d’angolo”, perché strutturalmente la pietra d’angolo permette di costruire e, quindi, in questi anni in cui, bene o male, prima la GISEP, poi la SISEP, poi la SLP, siamo stati affidatari di questa creatura che è la psicoanalisi, noi l’abbiamo anche fatta crescere. Questa creatura non l’abbiamo sbattuta nel versante psicotico, non l’abbiamo sbattuta nel versante delirante e magari ha qualche segno nevrotico che, però, insomma, può anche passare. Ora che sembrava esserci una separazione, come in ogni buona separazione che si rispetti, abbiamo cominciato a darci addosso, noi vecchi affidatari della SLP ci siamo sentiti dire che, in buona sostanza, non abbiamo allevato un bel ragazzo, un bel bambino, noi abbiamo allevato un aborto di bambino perché siamo stati nella ripetizione, perché siamo stati nella burocrazia, perché non abbiamo parlato e perché non abbiamo fatto parlare. Però, non abbiamo nemmeno parlato e questo mi tocca in modo molto particolare perché, evidentemente, mi sono trovata a essere tra gente codarda, e questo è brutto, gente che non ha avuto il coraggio di parlare. Questo siamo stati in questi anni e il bambino che abbiamo allevato è un aborto di bambino. Ma è davvero un aborto di bambino? Davvero ritorna questo punto della discussione. Se è un aborto di bambino, noi dobbiamo tenerlo e fare i conti con questo aborto di bambino, che abbiamo costruito tutti insieme.

Se non lo è, allora, com’è stato possibile che questo venisse detto e sostenuto? Basta tornare indietro? Basta tornare a dire “mettiamoci una pietra sopra”? Ma questa pietra non è come quella d’angolo. Intendiamoci, io sono molto contenta che Massimo Recalcati sia tornato indietro e certo non chiedo che si vesta con il saio e che si copra il capo di cenere, non è questo che domando, ma domando che si dia una spiegazione logica di quanto è successo, che si dia una lettura di quanto è avvenuto. Perché come rappresentazione teatrale non c’è male, ma mi sembra che manchi il regista che la manda in onda.

Loretta Biondi: Volevo dire che prima, quando Massimo Recalcati ha detto “torno nella SLP”, c’è stato un effetto in me di questo dire. Senz’altro ha provocato qualcosa di teatrale, ma non è di questo che voglio dire. Mi ha fatto venire in mente questo particolare punto della Conversazione di oggi, il momento in cui, dopo che andai a bussare alla porta dell’analista, per chiedere di stare meglio – allora la pensavo così – l’analista mi ha detto di sì e mi ha detto di stendermi sul lettino. Allora, in quel momento lì, ho sentito un sollievo, però da lì è iniziata anche una fatica. Questa Conversazione per me ha una punteggiatura molto chiara e molto forte. È quella di un sollievo, dopo una settimana di notti insonni, senz’altro. Quello che chiedo per il progetto: che la Conversazione prossima sia animata dal nostro lavoro, dal lavoro di ciascuno nella clinica.

Monica Samaniego: Io sono molto sorpresa. Sono, da una parte, sicuramente contenta dello sviluppo di questa Conversazione, ma sono sorpresa perché questa Conversazione ha luogo in Italia, con determinate caratteristiche che ha la comunità italiana, per me. Ma non si tratta di questo. Si tratta di una comunità sicuramente attraversata da diverse tracce storiche che, in questa Conversazione, mi sembra siano precipitate in un modo particolare.

Me ne vado con la sensazione che la richiesta e la domanda di Massimo Recalcati abbiano trovato una risposta nel Campo Freudiano e nell’AMP, ma si apre una domanda che, per me, è veramente molto importante riguardo a quello che concerne l’ambito locale, l’ambito della SLP. Possiamo, infatti, aprire numerose Conversazioni, possiamo enumerare i lavori clinici eccetera eccetera, ma rimane il fatto che il legame al livello della Scuola, a livello locale non è questo. E secondo me, almeno questo sarebbe stato il mio desiderio, la questione trattata a livello dai membri della SLP avrebbe dovuto toccare quel reale che per me, in realtà, non è stato toccato.

Jacques-Alain Miller: Bene, farò un Comunicato n. 8, in cui cercherò di tirare un bilancio rapido di questa giornata per rassicurare i nostri colleghi nel mondo che erano un po’ preoccupati da questa Conversazione. Abbiamo sentito oggi qualcuno che evoca il tema arcinoto dell’“oscenità gruppale”, il gruppo e l’oscenità immaginaria, eccetera. Per l’appunto, questo non capita sempre. Oggi non c’è stata affatto oscenità. C’era l’immaginario, ovviamente, è normale, perché ci sono i corpi che si mostrano, ma essi si sono entrati più nel registro del comico che non in quello dell’oscenità. Dal punto di vista simbolico, razionale, argomentativo, dal punto di vista della dinamica delle opinioni e della loro trasformazione, non ho mai visto qualcosa che funzionasse così bene.

Dunque, in ogni caso, ho guardato il calendario. Propongo di tornare a Milano il 12 o il 13 gennaio, o la settimana successiva, alfine di creare, con coloro che vorranno condividere questo momento, il nuovo ambito istituzionale supplementare, necessario per animare quello che Domenico Cosenza ha molto ben definito come obiettivo, quello che Recalcati ha chiamato “nuovo ambito istituzionale” e che Licitra-Rosa ha chiamato “nuova identificazione”. D’altronde, penso che, nel mio Comunicato n. 8, proporrò a tutti e tre, più Luisella Brusa – ci vuole anche una donna –, di elaborare la carta di questa nuova impresa per dare al Campo Freudiano, in tutta la sua estensione, la potenza sociale e politica di cui abbiamo bisogno per proteggere la psicoanalisi. A parte questo, ognuno si terrà il negozio che ha, la start-up che ha... Dunque, vi dico: ci rivediamo sicuramente a metà gennaio 2008 per realizzare tutto ciò. A presto.

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